sabato 23 gennaio 2016
Dopo la visita alla Sinagoga di Roma, Papa Francesco farà visita anche alla Grande Moschea di Roma. Sarà la prima volta che il Romano Pontefice renderà omaggio, nella capitale della cristianità, all’Islam religioso. È uno dei tanti gesti di “misericordia” del Papa. Non può che essere anche un benefico messaggio in controtendenza rispetto allo scenario, da scontro tra civiltà, che gli integralisti islamici impongono nella dimensione globale. Si tratta di una delle tante iniziative che auspicano il superamento delle divisioni tra le religioni monoteiste, nell’intento di tenere aperto il dialogo interreligioso, per nobilissimi fini di pace.
Del resto, queste iniziative stimolano l’espansione delle reciproche conoscenze e possono servire a superare le divisioni. Tuttavia, il dialogo interreligioso è utile ed auspicabile alla sola condizione che ci sia la consapevolezza delle reciproche diversità. Non so se è diffusa la consapevolezza che l’Islam non è solo religione, ma molto di più. Infatti, è anche filosofia di vita e dottrina politica, frutto della rivelazione divina. Per questo è un errore imperdonabile circoscrivere il fenomeno Islam alla ristretta cerchia dei fenomeni religiosi.
Con l’Islam non si confrontano i vangeli soltanto, perché l’Islam è vangelo, dottrina giuridica e politica. Se la religione in occidente coinvolge soprattutto la sfera individuale, il cosiddetto foro interno, in oriente identifica allo stesso tempo l’individuo e la comunità politica. Soprattutto, la religione non va intesa semplicemente come la condizione della coscienza individuale perché, accanto alle convinzioni di fede, comprende tutti gli aspetti della vita umana e deve portare non soltanto a guadagnare il regno dei cieli ma anche il riscatto nella terra. La prima fase della vita del Profeta, presso la Mecca, si è caratterizzata per la predicazione dei principi religiosi (riti e preghiere), ma la seconda, dopo il trasferimento a Medina, quando il Profeta ha assunto la responsabilità della guida politica della comunità dei musulmani, si è arricchita di una serie di prescrizioni che appartengono alla sfera pubblica (politica).
Per questo A. Predieri può sostenere che “la sharî῾a è base di ogni organizzazione istituzionale, di ogni ramo di diritto, di politica, è la comunità, la patria, il mondo, la bussola nei momenti delle scelte tragiche”. Si è soliti proporre, nelle sedi meno competenti, il presunto dilemma “Islam: religione o politica?” ma, tra gli addetti ai lavori, il dilemma non si pone perché, a partire dal primo pilastro dell’Islam “non vi è divinità all’infuori di Allāh”, deriva un principio assoluto, che uniforma tutto il mondo musulmano, quello dell’unicità dell’Islam (tawhîd), idoneo ad identificare, attraverso le costruzioni della teologia, della filosofia, del diritto, della dottrina politica, sia la religione che la politica.
In verità, l’Islam è “doverosa cultura religiosa” e ingloba tutti gli aspetti della vita. In arabo si dice che è dīn wa dunya: religione e società, oppure dīn wa dunya wa dawla: religione, società e Stato. Per P.J. Vatikiotis, “l’Islam è per definizione una religione politica: impone doveri politici ai credenti. A differenza del cristianesimo, rende la fede un valore di ordine politico, di fatto il solo valore che conferisce alla città terrena la sua ragione d’essere”.
Per la cultura occidentale la congiunzione tra la dottrina delle cose di Dio (teologia) e la dottrina delle cose del mondo (politica) non è una necessità oggettiva, come attesta la secolare contesa tra laicità e cristianità. Marsilio da Padova l’ha risolta con l’affermazione che la società umana è soltanto un patto tra uomini, niente di più. Nell’Islam invece, in base al principio del tawhîd (unicità), tutto deriva da Dio, verità assoluta ed elemento d’identificazione di una società che, senza Dio, è priva d’identità.
A ulteriore conferma di queste considerazioni, ricordo un altro particolare, apparentemente di minor peso, perché ascrivibile al piano della linguistica. L’espressione dîn, nell’Islam sunnita (vi aderisce il 90 per cento dei musulmani), non va tradotta semplicemente con “religione”, perché esprime allo stesso tempo l’insieme delle regole della vita spirituale e della vita sociale, è cioè allo stesso tempo, religione e politica. Per tutte queste ragioni non si può che prendere atto che le regole del Corano e Sunna, pur nelle inevitabili diversità delle scuole teologiche ortodosse, contengono allo stesso tempo elementi di natura religiosa (dogmi, doveri religiosi, riti), giuridica e politica, ciò che fa del pensiero e della prassi islamica una vera e propria ideologia religiosa totale. In un certo senso, religione, diritto e politica sono la stessa cosa, così da trasformare l’Islam in un dovere religioso e sociale.
Per questo, penso che sia condivisibile la raccomandazione di Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, palestinese di religione cristiana, autore di molti saggi sui diritti umani che, pur considerando il dialogo interreligioso un’oggettiva utilità per il mantenimento delle condizioni minime della pace nel mondo, ammonisce a che il confronto si radichi, sul piano etico, sui principi dell’assoluta franchezza e, sul piano giuridico, sul reciproco rispetto dei diritti umani. Aggiunge: “Le Chiese cristiane renderebbero un cattivo servizio ai loro fedeli e ai musulmani, adottando un discorso adulatorio e sostenendo le ragioni dei musulmani, senza tener conto dei secondi fini e delle loro conseguenze”.
di Guido Guidi