martedì 19 gennaio 2016
Ricordare il sedicesimo anniversario della morte in esilio di Bettino Craxi e leggere, contemporaneamente, il fondamentale e bellissimo “Novantatré” (Marsilio editore), ultima fatica di Mattia Feltri, ha rappresentato per molti come me un viaggio incredibilmente alla rovescia.
Credevo di rituffarmi nel cosiddetto annus horribilis di Tangentopoli-Mani Pulite, di passare attraverso i passaggi di un autentico viaggio nella vertigine e invece, per una stranissima elaborazione mentalmnemonica, mi sono accorto che il mio percorso andava in avanti, guardava al futuro, con un presente pressante. Poi ho letto la prima frase della prefazione di Giuliano Ferrara al libro del suo ex collaboratore al “Foglio” che ora lavora a “La Stampa” e i suoi articoli sono sempre una freccia che colpisce nel bersaglio, meglio, al fianco, e ho capito il perché del mio straniamento da viaggio: “Prima di tutto il presente storico, poi il futuro inevitabile. L’inchiesta di Mattia Feltri sulla storia italiana tra il 1992 e il 1993 non conosce l’uso dei verbi al passato. Chiunque abbia agito in modo subdolo contro la Repubblica dei partiti... ecco che sarà inchiodato alle sue responsabilità... È una scelta di stile, una soluzione folgorante... un capolavoro”. Eppure il libro parla proprio di quel 1993, anno di un climax, di una frenesia giustizialista irrefrenabile, acuta e irreversibile scatenata da Mani Pulite, con un’accuratissima impietosa scelta di scritti, dichiarazioni, articoli, paginate osannanti al Pool e al suo simbolo (delle manette), Antonio Di Pietro. Con la scansione implacabile di arresti, suicidi, morti, fiaccolate sì da fare apparire “Novantatré” una sostanziale cronaca di un'andata all’inferno senza ritorno dei protagonisti della Prima Repubblica. Il fatto è che questa cronaca nerissima e amarissima fa i conti con questa cronaca quotidiana, riavvolgendo il nastro l’autore intende aggiornarlo proiettandolo in là, costringendo a fare i conti senza i rancori che pure c’erano e ci sono, ma con l’obbligata offerta di una riflessione senza sconti e, soprattutto, senza scuse. Per nessuno. Se ci si pensa bene, la figura di Craxi in questo sedicesimo anniversario della sua morte e della sua orgogliosa scelta di riposare in una bianca tomba di Hammamet, ottiene, da qualche anno, un analogo processo, una sorta di torsione come se la sua storia ci raccontasse una vicenda del nostro oggi e del domani, facendo tesoro degli anni della sua persecuzione mediatico-giudiziaria che dal 1992 è proseguita con un accanimento che non ha uguali nella politica italiana.
Bettino Craxi aveva parlato della corruzione in Parlamento, come ci narra Mattia, in un discorso scambiato per il solito “tutti colpevoli tutti innocenti” e accompagnato da un assordante silenzio che di per sé la diceva lunga sulla coda di paglia dei presenti chiamati in causa non come i ladri del regime ma, piuttosto, come protagonisti, chi più chi meno, di una lunga stagione in cui il reato di violazione del finanziamento pubblico era bensì grave e da perseguire ma proprio per la non estraneità di quasi tutti i partiti a quei reati s’imponeva una autocritica tanto severa quanto propositiva, altrimenti saremmo precipitati in una ben peggiore stagione politica perché inaugurata sulla grande menzogna. Da cui il ventennio che ne è seguito, con i partiti dissolti, le classi dirigenti inadatte, le pulsioni forcaiole mai spente, l’uso della giustizia per fini politici, ecc. ecc.”. “Quanto aveva ragione Craxi? - si chiede l’autore - A Craxi morto si è cominciato a riconoscerlo, un po’ sottovoce, un po’ di sfuggita, segnalando qua e là che i denari presi per corruzione erano serviti, fra l’altro, al finanziamento della resistenza anticomunista all’Est europeo, mentre i rubli arrivati da Mosca a Botteghe Oscure tenevano in piedi la boccheggiante e livida utopia marxista”.
Ebbene, la straordinaria importanza della questione posta allora e in poi da Craxi si è lentamente diffusa, e oggi tutti, più o meno, sono costretti ad ammettere che la logica del ragionamento craxiano era non soltanto di grande lucidità ma di inascoltata premonizione. Al di là delle clamorose tecniche, giudiziarie e politiche, di salvataggio di certuni e di dannazione per altri, al di là delle pur sciagurate storie di innocenti sbattuti dentro, di abusi del carcere, di autentiche campagne di linciaggio di cui Craxi è stato l’emblema e il capro espiatorio, il ricordo della sua personalità, delle scelte politiche, delle decisioni di governo, degli atti di politica estera risultano ancora più attuali e luminosi man mano che ci immergiamo nella rilettura di quegli anni del cosiddetto “Grande terrore giudiziario”. Il contrappasso e la sua ferrea legge non bastano a spiegare questa nemesi. Perché la figura politica di Craxi, lasciato morire in esilio ma, dopo morto, ritenuto degno di funerali di Stato, è di per sé un simbolo, un insegnamento, un indicatore luminoso. Dicono che è morto, mi disse un giorno don Baget Bozzo, “ma lui è come quelle stelle definite morte, eppure la loro luce ci arriva sempre più chiara e forte. E continuerà nel tempo”.
di Paolo Pillitteri