Cassazione: norme neocorporative

giovedì 14 gennaio 2016


Prima di lasciare per limiti di età la Prima Presidenza della Corte di Cassazione, il dott. Giuseppe Santacroce ha siglato, assieme all’avv. Andrea Marchesin, Presidente del Consiglio Nazionale Forense un “protocollo d’intesa in merito alle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia penale” ed un altro analogo “per la materia civile e tributaria”. Ho fatto ricorso alla mia memoria (che, malgrado tutto, conservo assai buona) per cercar di ricordare che razza di “regole” fossero quelle redatte mediante protocolli di intesa, ben lieto che tanta mia ignoranza non mi fosse stata fatale nell’oramai lontanissimo 1960 quando sostenni gli esami per il patrocinio in Cassazione. Si doveva trattare di una “fonte” normativa “nuova”, sorta dalle “rottamazioni” renziane (e non solo) di quello che una volta era il diritto processuale.

Tutto sommato questa normativa pattizia non riesco ad inquadrarla, invece, che nelle “norme corporative” di cui agli art. 1 e 3 delle “Preleggi”. Ma, a parte la novità della normativa corporativa in materia processuale, a me risulta che il “sistema” corporativo è stato abrogato dal 1944. Corporazioni a parte (così si spera ad essere ottimisti) questo “protocollo” è il frutto di una sempre reviviscente confusione tra funzione prescrittiva-normativa e funzione valutativa delle qualità, così da impasticciare, cosa che avviene sempre più spesso, tra legittimità e merito, delle attività amministrative e, più in generale “tra il lecito ed il buono”.

Questo perché il Primo Presidente (Santacroce è stato un ottimo magistrato, ma io non intendo far confusione tra “bravura” e “legittimità”) con il suo staff e l’avv. Marchesin, con i membri del C.N.F. e gli “esperti” pare abbiano discusso su come deve essere un ricorso “ben fatto”, un “bel ricorso”, ma poi hanno voluto fare delle norme, corporative o non so cos’altro, per obbligare imputati, ricorrenti, parti in causa e loro avvocati a 2 fare “ricorsi belli”, facili a trattarsi dai Consiglieri relatori e dai Collegi giudicanti.

Ci sono alcune prescrizioni del “protocollo” che possono essere giustificate con l’esigenza di consentire un’immediata classificazione dei ricorsi, ad esempio per l’assegnazione alle varie Sezioni e ai vari relatori, per gli adempimenti di Cancelleria secondo le esigenze dell’informatizzazione etc. Ma, detto questo, il resto sembra solo il frutto di un’altra tendenza, che con quella della persistenza dell’affezione alla normativa corporativa è strettamente connessa: quella di considerare le norme processuali e la loro produzione qualcosa di accessorio alla stessa attività giurisdizionale un’”interna corporis” della macchina giudiziaria. E, in termini di politica attuale, un’altra “esondazione” della magistratura, un altro strumento del “Partito dei Magistrati” di cui vado parlando con tanta insistenza, oramai da troppi anni.

Non starò a fare un “giudizio di merito” su questa nuova forma di “legislazione di fatto”. Ma c’è un punto che suscita, più che perplessità, una certa ilarità. Dopo aver dettato le regole per la scelta del tipo di carta da usare e dei caratteri di scrittura e modalità di impaginazione, i Signori Presidenti delle due parti contraenti stabiliscono la ferrea norma che impone che l’esposizione del “fatto” non può superare le cinque pagine (redatte secondo le prescrizioni di cui sopra). La trattazione dei motivi di diritto “non può superare le trenta pagine”. Bella ed opportuna la precisazione: nel computo delle pagine non sono comprese le intestazioni, le epigrafi etc. Ma una certa difficoltà a mantenersi nei limiti di una composta critica si incontra leggendo la norma che, consentendo in casi eccezionali, determinati dalle particolarità della materia da trattare e delle doglianze sollevate, consente un modico superamento del limite suddetto (trenta 3 pagine) ma di tale necessità deve essere data la motivazione (non è previsto il limite per l’esposizione di tale motivazione!!!).

A questo punto è indispensabile il richiamo alla esperienza incredibilmente attuale del mondo giudiziario del Belli (sonetto “Er monnezzaro provibito”, 18 aprile 1834). Un poveraccio multato da Monsignor Presidente de le Strade, si fa stendere, spendendo un “lustrino”, un bellissimo memoriale di ricorso.

Je ce dicevo: Monsignore mio quanno lei trova er reo Voi castigatelo ma er monnezzaro nun ce l’ho fatt’io E sai che me rispose quer Nerone? “Questo nun me confinfera, arifatelo c’hio non vojo sentì tante raggione”

Ma i ricorsi che superino le trenta pagine di motivazione non si potrà disporre che siano “arifatti”. Bontà sua, il protocollo bilaterale precisa che “non potranno essere dichiarati inammissibili” (guarda che generosità!!) ma (udite la minaccia) “potrà tenersene conto ai fini della condanna alle spese”. Cioè il Consigliere, cui il ricorso non “confinfera” per la sua eccessività, magari non adeguatamente e sufficientemente motivata, potrà “rifarsi” con una memorabile “stangata” nella “condanna alle spese del giudizio” dello scocciatore.

Per concludere: il Signor Avvocato nonché Presidente del C.N.F. Marchesin ha perso l’occasione per ottenere che il Primo Presidente della Cassazione disponga analoghe norme per i Procuratori e Procuratori Generali ricorrenti, con invito ai suddetti ad evitar di superare anche loro le trenta pagine o, quanto meno, a non ricorrere, per poter vantare la “monumentalità” di un ricorso, al “copia ed incolla” di pezzi di altri atti e scritti propri o altrui e, se non altro, ad evitare di lasciare in qualche pezzo “incollato” nelle proprie requisitorie, l’intestazione del pezzo ad un altro Ufficio (ricordo una certa dott. Brescia della Procura di Agrigento che 4 “incollò” un brano di un atto con tanto di intestazione “Procura della Repubblica di Milano”). Un nonnulla rispetto ad altre sue “prodezze”. Il C.S.M. che aveva ricevuto vari esposti sulla distratta Magistrata, la “promosse” Sostituto Procuratore Generale a Caltanissetta.


di Mauro Mellini