mercoledì 6 gennaio 2016
C’è chi vuole, fortissimamente vuole, mostrare (ovviamente in tivù e poi sui social network) una foto finalizzata ad un qualcosa che vedremo, e chi invece non desidera in alcun modo mostrare in fotografia una persona per non offrirne l’immagine attuale rispetto ad un’altra degli anni passati mostrata in televisione, questa sì, ripetitivamente, come per contrappasso.
È stato il caso di Eluana Englaro, ricordate, la giovane da tanti anni in stato vegetativo che il padre voleva passasse ad una miglior vita, che è appunto la morte assistita, interrompendo l’alimentazione forzata. La foto di Eluana com’era prima, in giubbetto, slanciata, sorridente e felice, era l’unica testimonianza visiva della donna bella e vitale. Che però non c’era più. Bastava mostrarne una foto del suo stato attuale perché, come San Tommaso, lo spettatore vedesse e toccasse con mano il cosiddetto “stato delle cose”. Ma il padre, Beppino Englaro, rifiutò con ostinazione la pubblicazione delle fotografie intese, tra l’altro, come prova provata ben oltre un processo, ma in televisione, coram populo, perché sentimentalmente quel padre voleva preservare la “poesia” della propria figlia e non era minimamente interessato a soddisfare la curiosità pelosa dell’audience verso quel derelitto corpo che, appunto, meritava solo di essere lasciato a riposare in pace - e questo indipendentemente dal fatto che si fosse d’accordo sull’uso dello strumento dell’interruzione dell’alimentazione forzata.
Oggi c’è il rovescio della medaglia, anzi, un doppio rovescio se non triplo, un caso, anzi un doppio caso, Cucchi e Uva, in cui la centralità della fotografia è riproposta ma con un moltiplicatore, come se allo specchio buio di Eluana allora, si contrapponesse ora la luce accecante di un faro micidiale puntato, grazie alla tivù e Internet, contro un duplice obiettivo sì da ottenere un risultato che va oltre i processi giudiziari in corso, li riassume e li reinterpreta giudicando in nome del popolo italiano, cioè della tivù e di Facebook. Quando si parla di processi in televisione (e il nostro Diaconale ne ha indicato tempo fa rischi e pericoli per gli imputati e per la giustizia) si intende, per l’appunto, quella procedura informativa che non solo scavalca l’iter giudiziario - in virtù della maggior velocità dei mass media ben prima del Pm e dei giudici, avvantaggiandosi a poco prezzo di audience grazie al giustizialismo di massa più o meno televisiva - ma, quel che è peggio, non può non influenzare lo stesso comportamento dei magistrati, i quali non sono degli Alien estranei al gioco pericoloso dell’immagine televisiva.
Forse, non a caso, la foto del povero Stefano Cucchi “pestato dalle forze dell’ordine” è stata iteratamente protagonista di telegiornali e di talk-show e, forse non a caso, sia la foto postata su Facebook dalla sorella Ilaria del “carabiniere palestrato” imputato in quel “pestaggio”, così bello e vitale rispetto alla vittima, e la foto del poliziotto coinvolto nel caso Uva, diventano le vere protagoniste di un’altra storia, di un altro iter processuale, ben più virulento e incontrollabile. Ecco che il gioco perverso dell’immagine offerta per una finalità reclama un percorso obbligato, pretende una strada tutta sua, impone una sua logica che si contrappone sia alle modalità delle normali leggi, sia, soprattutto, al ragionamento sul giudizio.
Non per richiamare la dannazione della politica-spettacolo, ma sta di fatto che ogni qual volta la politica e la giustizia finiscono in televisione e/o sulla Rete il pericolo non è che la politica e la giustizia siano diventati i contenuti degli spettacoli televisivi, ma che questi stiano irresistibilmente diventando il contenuto di politica e giustizia. Si assiste da troppo tempo ad un letterale ribaltamento della legge normale, ad una sua massmediatica interpretazione che, basti seguire il caso Cucchi, è simile a un fiume in piena, limaccioso e crudele, anche e soprattutto per via della natura stessa dei social che esaltano il forcaiolo che è in tanti di noi piuttosto che il garantista purtroppo limitato e spesso dormiente. Il meccanismo che si mette in moto non è però automatico, ha una sua funzione, diciamo in senso lato, politica, antagonista, contestativa, in cui lo sfogo alle pulsioni internettiane oppone un muro di cemento a ciò di cui avrebbe più bisogno un Paese come il nostro, percorso da una ventata di rancore e di astio: un minimo di buon senso. Anche dei mass media, si capisce.
di Paolo Pillitteri