Una destra possibile

giovedì 17 dicembre 2015


Le elezioni francesi sono state, tecnicamente, un pericolo scampato. Ma di questi tempi la destra transalpina, come in genere quella occidentale, ha ben poco da festeggiare. Se infatti in alcuni paesi sono emerse opzioni concrete di governo in grado di catalizzare una solida maggioranza del voto di centrodestra, è anche vero che larga parte dei prossimi terreni di scontro elettorale saranno caratterizzati dalla prepotente affermazione di forze anti-sistema, populiste nei toni e incoerenti sul piano culturale ma capaci di attrarre consenso e spazio mediatico.

Donald Trump negli Stati Uniti, Marine Le Pen in Francia, Matteo Salvini in Italia: tutti rispondono, anche se con peculiarità e sfumature diverse, a un medesimo schema. Nel tempo della globalizzazione, dell’apertura dei mercati, del crollo delle mediazioni e dei confini c’è un pezzo di società che si sente impaurita, che teme il diverso e il cambiamento, che crede si possano conservare radici e tradizione soltanto richiudendosi in un recinto composto da poche, chiare parole d’ordine. Demonizzazione dell’immigrazione (clandestina e non), attacco frontale all’Islam (radicale e non), demagogia e populismo in economia: più Stato, più spesa pubblica, più protezionismo mascherati da piccoli benefici elargiti (meglio: promessi) alle fasce più in difficoltà della popolazione.

Il mix è letale, a tratti pericoloso, ma è riuscito a cambiare profondamente il quadro politico dei paesi in cui questi movimenti si sono affermati con forza. A volte, paradossalmente, favorendo la destra moderata, come è avvenuto in Francia, a volte uccidendo qualsiasi speranza di vedere nuovamente la destra al governo come rischia di avvenire negli Stati Uniti. La corsa per la Casa Bianca vedrebbe i repubblicani favoriti se non fosse, appunto, per il ciclone Trump. Il Grand Old Party arriva da elezioni di mid-term vinte comodamente, con una solida maggioranza sia al Congresso che tra i governatori degli Stati, presendandosi all’appuntamento delle presidenziali con un gruppo di candidati alle primarie molto competitivo, qualitativamente uno dei migliori dal tempo di Ronald Reagan. Quello che succede, molto concretamente, è che lo stellone di Trump sta offuscando tutto il resto e così l’attenzione di media ed elettori scivola sulla proposta di chiudere Internet e non sul bilancio degli otto anni di Presidenza Obama o sulla candidata democratica Hillary Clinton.

Esaltare i margini. Matteo Salvini non esprime un pensiero compiuto, non si occupa di generare una proposta completa. Non ne ha interesse: offrire un set di soluzioni possibili richiede un lavoro molto faticoso, non necessariamente premiante e implica il rischio di dover fare delle scelte. Vuoi favorire i giovani? Dovrai togliere ai pensionati. Vuoi mandare la gente in pensione prima? Dovrai alzare i contributi. Vincoli di bilancio e un Paese con crescita anemica impediscono voli pindarici. Scegliere vuol dire scontentare qualcuno e preferire qualcun altro. In un ottica liberale, scegliere dovrebbe significare preferire i produttori contro i parassiti e in una visione popolare e solidale dare un’opportunità (una soltanto, non mille) a chi è rimasto indietro e poi valutare seguendo il criterio del merito. Farlo richiede coraggio. Mentre è molto più semplice agire ai margini del dibattito, occuparsi dei pochi e sperando di impressionare i molti. Nascono così categorie simbolo: gli esodati (quanti sono veramente?), i profughi (sono 100mila in Italia, un’inezia rispetto ai disoccupati), la Riforma Fornero (soluzione ad ogni problema: “aboliamo la Fornero”). Non serve fatica, colpisce la pancia e l’immaginario collettivo di un paese impaurito. Poco importa se il 99% di chi è disposto a votare Salvini non ha mai visto un profugo (e quindi non ha percepito il presunto disagio della sua presenza), non conosce un esodato nemmeno per sentito dire e non sa in cosa consiste veramente la Riforma Fornero. Siamo davanti ai “comunisti” di Berlusconi, con una sola differenza, per nulla banale: nel 1994 qualcuno che si diceva comunista effettivamente c’era. E rischiava di vincere le elezioni. Qui, Salvini e gli altri creano problemi che non esistono per poter poi proporre soluzioni che non reggono. L’Italia che vorrebbe il leader della Lega è, nella migliore delle ipotesi, un’Italia che porta i libri in Tribunale. Eppure lui è lì, pontifica e dà le carte, con Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni costretti a rincorrerlo sul palco di Bologna, cancellando anni di governo che abbiamo spesso criticato ma che oggi assumono tutto un altro significato, se paragonati al deserto che ci aspetta.

Malattie e sintomi. Sbaglia, però, chi pensa che Salvini, Le Pen o Trump siano “il” problema del centrodestra. Essi rappresentano il sintomo più evidente, la febbre che segue l’infezione. Ma la malattia è altrove e, se è vero che la febbre va affrontata subito e con decisione, per garantire una guarigione duratura occorre affrontare il problema con determinazione e autocritica. Il centrodestra mainstream ha in questi ultimi mesi concesso praterie politiche alle derive più estreme. Prima ignorandone l’esistenza, poi risolvendo tutto con l’epiteto del “populismo”, infine rifiutando ogni tipo di dialogo con chi quelle tesi – per quanto folkloristiche – sinceramente sostiene. Laddove la destra più estrema si rafforza è perché nessuno è riuscito a separare il fenomeno emerso dal disagio che rappresenta e a dividere, plasticamente, i leader dal loro elettorato. David Cameron ha reso irrilevante l’Ukip di Farage un po’ perché il sistema elettorale glielo consentiva, ma soprattutto perché ha saputo parlare a quell’elettorato senza interloquire con il loro leader pro-tempore. Il voto all’estremismo è diventato così irrilevante, i bisogni degli elettori soddisfatti da una proposta più ragionevole e il voto di protesta in ultima analisi dannoso perché potenzialmente vantaggioso per il Labour, avversario ben più odiato dell’establishment conservatore. Ancor di più Angela Merkel che con un’agenda di governo efficace ha addirittura impedito la nascita di qualsiasi movimento credibile alla sua destra.

Le cause. Non è solo un problema di tattica politica; ci sono temi sul tappeto che sono sociali, culturali, economici insieme e che vanno una volta per tutti affrontati. Un recente report molto articolato dell’istituto americano Pew Research ha indagato la scomparsa del cosiddetto ceto medio statunitense. Si tratta di un fenomeno molto discusso in questi anni ma oggi ha una sua simbolica consistenza numerica: per la prima volta nella storia americana la classe media è minoranza nel paese. Cosa c’entra questo con l’emersione di un certo tipo di estremismo senza cultura politica sottostante? Moltissimo. Innanzitutto perché la classe media è stata naturalmente il motore di ogni società moderna: sono famiglie non così ricche dal potersi disinteressare di cosa fa il governo, non così povere da essere assorbite da problemi diversi. Sono mediamente scolarizzate e aspirano a crescere e migliorare. La classe media è l’indicatore principale della capacità di una società di avanzare economicamente, di far funzionare l’ascensore sociale, in una specie di crocevia tra chi sale e chi scende, tra chi vede aumentare le proprie disponibilità e il proprio prestigio e chi invece regredisce. Meno classe media vuol dire meno di tutto questo, con due risultati evidenti: un blocco sociale in alto che sarà sempre più affascinato dal capitalismo “crony” e un segmento in basso arrabbiato e ai margini. Rilanciare il centrodestra vuol dire anche e soprattutto ricostruire un ceto medio e un rapporto con esso.

C’è poi un secondo tema, che con ogni evidenza è il primo per importanza. Si chiama politically correctness ed è un morbo che ha contagiato anche il centrodestra. Se fosse solo una questione semantica potremmo far finta di niente, purtroppo è qualcosa di molto più profondo. I problemi esistono, anche quando ci si sforza di non chiamarli con il loro nome. I cittadini occidentali percepiscono un’insicurezza di fondo: economica, sociale, umana. E mettere la testa sotto la sabbia è sbagliato. Se le persone percepiscono le proprie città come meno sicure queste diventano meno sicure anche se le statistiche dicono il contrario. Se le famiglie vedono l’immigrazione come una minaccia per i propri figli, il tema va affrontato di petto. In piena recessione economica e con tassi di occupazione inchiodati ai livelli del picco della crisi è semplicemente suicida avere le stesse regole per l’ingresso degli stranieri adottate quando il Pil cresceva del 2%e la disoccupazione era al 6,5%, la metà di quella attuale.

Poi c’è la guerra di civiltà: esorcizzata come se bastasse non parlarne (o smentirne l’esistenza) per farla scomparire. E invece è lì, nei corpi uccisi al Bataclan, nella normalità violentata, in un modello di società incompatibile con la follia radicale di alcuni. Ed è un errore madornale isolare quegli episodi e negare l’esistenza di un filo rosso che unisce l’Undici Settembre, gli attentati in Spagna e a Londra, la carneficina di Parigi, l’emergenza perenne in cui vive Israele, i diritti delle donne calpestati, la dignità e i diritti civili considerati come un ostacolo da rimuovere sulla strada dell’affermazione della Sharia. L’Islam rappresenta un problema epocale: vale per la sua degenerazione radicale e vale per l’Islam cosiddetto moderato, che appare oggi una creazione psichedelica dell’intellighenzia occidentale.

Una destra possibile. Chi se non il centrodestra può rilanciare con forza l’idea di Frank Meyer di un’eredità occidentale fondata sulla massima “reason operating within tradition”? E chi se non un centrodestra moderno, occidentale, liberale e popolare può raccogliere la sfida cui ci chiama oggi l’islam politico? È una sfida non molto diversa da quella che questo blocco naturale, culturale, sociale e politico insieme ha già combattuto e vinto contro la minaccia comunista. Se però il centrodestra abdica, si dimostra titubante, non difende con decisione i valori occidentali, non promuove la libertà della persona in ogni ambito, a partire da quello economico, allora è lecito aspettarsi che i cittadini si difendano in altro modo, accettando opzioni muscolari di difesa dei propri valori anche al prezzo di sacrificare la libertà economica e il progresso possibile nella tradizione.

Ci siamo già passati. Il centrodestra è stato diviso molte volte, in molte competizioni elettorali, in diversi paesi occidentali. Ci sono, però, divisioni e riconciliazioni che insegnano molto e che andrebbero utilizzate oggi come paradigma di come le cose si devono fare. Negli anni ’50 “La Rivolta di Atlante” di Ayn Rand diventa uno dei libri più letti tra i giovani conservatori americani. Il taglio libertario del romanzo di Rand non piace a uno dei pilastri culturali della Right Nation americana: la National Review, in più occasioni, smonta le tesi del libro arrivando a definirle “naziste”, “anti-cristiane”, “arroganti”. È la sintesi forse più chiara di come la destra americana in quegli anni fosse divisa in fazioni tra loro incapaci di comunicare e incapaci di trovare un terreno comune di ragionamento possibile.

Solo dieci anni dopo Frank Meyer scrive “In Defense of Freedom” considerata da tutti la bibbia del fusionismo a stelle e strisce. E nel 1964 cura un volumetto poco conosciuto al grande pubblico ma di un’incredibile importanza, culturale e politica. Meyer pubblica, infatti, una serie di osservazioni fatte da intellettuali conservatori che cercavano di rispondere alla domanda “What is conservatism?”. Nonostante differenze di approccio, Meyer coglie un pattern comune capace di unire Hayek (che rifiuta pubblicamente l’etichetta di conservatore), Buckley e Kirk. Tutti considerano la persona come centro di ogni elaborazione politica e sociale, tutti scartano l’idea di uno Stato con poteri così ampi da poter determinare una propria agenda sociale nonostante il volere delle persone, tutti riconoscono la centralità della Civiltà Occidentale e la necessità di difenderla con ogni mezzo contro la minaccia comunista. Se vi sembra poco, tenete presente che da questa base comune venne edificata l’agenda Goldwater su pensioni, sussidi governativi, privatizzazioni, lotta al comunismo. E da qui alla Big Tent reaganiana il passo è breve, per stessa ammissione di Ronald.

Non è l’anarchia libertaria di Rand e nemmeno il tradizionalismo difeso anche attraverso lo Stato dei primi conservatori: è un mix delle due cose, è il riconoscimento che le due aspirazioni non solo possono convivere ma, di più, non hanno altra scelta che l’alleanza. Perché i libertari rischiano costantemente di essere etichettati come folkloristici esponenti di una teoria naif e i conservatori di vedersi dipinti come bigotti pronti a fermare il progresso pur di difendere i propri valori religiosi: entrambi hanno accettato l’idea di sacrificare la purezza ideologica sull’altare di un risultato possibile.

Segnali di speranza. Confrontare Ayn Rand con il liberali italiani o la prima versione della National Review con Le Pen o Salvini mette anche il più ottimista di noi di pessimo umore. I segnali di speranza, però, non mancano ed è giusto coglierli per non rassegnarsi al declino. Esistono esperienze politiche vincenti, che su questa base hanno costruito successi elettorali e di governo solidi. David Cameron nel Regno Unito è riuscito a tenere insieme un partito lacerato negli anni post Thatcher tra i cultori dell’ortodossia della Lady di Ferro e i riformatori iconoclasti a tutti i costi. Cameron ha saputo ridare centralità al movimento conservatore britannico interpretandone l’autentica vocazione ad essere non una chiesa o una setta ideologicamente pura ma una coalizione di volenterosi che si è data come obbiettivo quella di governare un paese uscito dalla sbornia della socialdemocrazia chic di Tony Blair e Gordon Brown. I tradizionalisti hanno certamente ceduto su aspetti importanti come l’ambientalismo o le unioni gay, ma hanno ottenuto in cambio un governo che ha sostenuto la famiglia come nessun altro esecutivo nel mondo occidentale, ha riformato il welfare, tagliato la spesa e le tasse e fatto ripartire l’economia. Non solo: ha bloccato l’assalto scozzese all’unità del Regno e fronteggiato l’avanzata populista di Nigel Farage, lasciato senza argomenti buoni contro cui sfogare la sua rabbia. L’idea che non si possa ripetere in Italia un’esperienza simile è dettata dalla scarsissima capacità intellettuale del centrodestra italiano di immaginare qualcosa che vada al di là della contingenza, della fiducia o sfiducia ad un esecutivo, del singolo ciclo elettorale.

Se rinviamo sempre tutto a dopo le elezioni, in un paese in perenne campagna elettorale, semplicemente accettiamo l’idea che il declino sia irreversibile e che, essendo cambiate le condizioni sociali ed economiche del paese in cui viviamo, non ci sia più bisogno di una destra repubblicana baricentrica. Il risultato conseguente è una sinistra che si propone come unica forza di governo credibile, magari mitigata nei proclami dalla necessità di guardare al centro, una destra schiacciata su posizioni estreme e svuotata di ogni senso progettuale e un polo della protesta guidato da ragazzi di molta buona volontà e pessime idee.

L’elettorato che ci sarà. Eppure la base elettorale ci sarebbe. Se solo non si commettesse l’errore macroscopico di parlare al poco elettorato che c’è, invece di rivolgersi a quello, più ampio, potenziale. Secondo il Centro Italiano di Studi Elettorali guidato da Roberto D’Alimonte le prime quattro famiglie sociali che compongono la costituency elettorale di Forza Italia sono nell’ordine: casalinghe, disoccupati, pensionati e impiego pubblico. È brutto da dire ma è quanto di più lontano esista dal partito liberale di massa in grado di mobilitare le forze vive e produttive del paese. Non è un caso se il partito di Berlusconi oggi è accreditato, in ipotesi tutto sommato rosee, del 7,9% a NordEst e del 9,6% a NordOvest: un dato che può essere spiegato solo in parte con l’esplosione della Lega Nord di Matteo Salvini. La verità è che la base elettorale potenziale del centrodestra è sfilacciata ed elettoralmente disorientata: il 39% della “borghesia” vota Movimento 5 Stelle, il 17% Lega Nord; il 38% dei dipendenti privati vota Grillo, il 36% il Pd, il 10% Salvini e solo l’8% sceglie Forza Italia. E’ credibile e stabile un quadro politico in cui il 56% degli imprenditori si affida a forze anti-sistema che non hanno ancora deciso se stare o meno nell’Eurozona? Ed è ormai irrecuperabile il voto di quel del 39% di ceto medio che vota il Movimento 5 Stelle ben sapendo che una frase sì e una no pronuncia la parola “patrimoniale” o “reddito di cittadinanza”?

Si tratta di una fotografia impietosa del disagio del ceto medio italiano. Un disagio prima economico, poi culturale, infine politico. Reinterpretare quel blocco sociale non è per nulla impossibile anche perché sono cambiate le esigenze di quelle famiglie e di quelle persone ma con quasi aritmetica certezza non sono cambiati i loro valori. Continuano a chiedere uno stato più semplice, una politica meno invadente, maggiore possibilità di scelta su cosa fare con i propri denari, politiche fiscali che non massacrino la proprietà e il risparmio. Votano Movimento 5 Stelle ma non sono impazziti: sono stanchi, stremati, stufi di una politica che non ha fornito risposte e allora optano per il “tanto peggio, tanto meglio”, sperando in una catarsi purificatrice. Se si indaga più in profondità, però, si scoprono cose molto interessanti: come nota Giuseppe Pennisi su “Il Sussidiario”, nelle pieghe del rapporto Censis presentato poche settimane fa, emerge un dato molto interessante. Scrive Pennisi: che secondo l’istituto fondato da Giuseppe De Rita “il 63% delle famiglie italiane nella fascia di reddito netto tra i 2.500 e i 3.000 euro (quindi, piccola borghesia) è favorevole a una riduzione delle tasse e delle imposte anche ove ciò comporti una riduzione dei servizi pubblici. Servizi, per di più giudicati in decadimento”. Una frase che chi fa politica nel centrodestra, oggi, dovrebbe tenere bene in considerazione e trasformare rapidamente in programma di governo soprattutto combinata ad un’ altra importante valutazione: le famiglie continuano ad avere una ricchezza considerevole in campo finanziario e immobiliare che stenta ad essere mobilitata. Ciò avviene anche e soprattutto a causa della “Trappola dell’incertezza”: norme che cambiano in continuazione, governi che usano immobili e risparmi come un bancomat, intellettuali ed economisti innamorati di una società iper dinamica in cui le famiglie non hanno case, non hanno eredità da trasmettere ai figli, non hanno risparmi con cui costruirsi il futuro. Fino al paradosso di società in cui le famiglie non esistono proprio, considerate un eccessivo freno alla costruzione ideologica di una società post-moderna e totalmente disarticolata.

Nella fusione tra tradizione e riformismo, tra difesa delle radici e dell’eccezione italiana e promozione di un’azione coraggiosamente liberale in economia, risiede l’unica strada possibile per liberali, liberisti, riformisti, popolari, moderati e destra nazionale. Divisi perderanno sempre, uniti alla sinistra o alla destra estrema finiranno per essere irrilevanti e vedranno completamente annientate le loro agende politiche. Sono costretti a stare insieme, come lo furono i discepoli di Hayek e quelli di Kirk: sono chiamati a condividere un futuro comune anche se spesso non hanno avuto lo stesso passato. Lo possono fare per convenienza o per intima convinzione culturale: l’unica cosa certa è che devono farlo presto. Prima di scomparire.

 

(*) Articolo tratto da Rightnation


di Andrea Mancia e Simone Bressan