Tra diritto di difesa e circolare Pignatone

venerdì 4 dicembre 2015


In piena astensione dall’attività giudiziaria penale proclamata dall’Unione Camera Penali Italiane la Cp di Roma, torna a farsi sentire. Effettivo motore della protesta contro la contrazione del diritto di difesa che non solo le iniziali modalità organizzative del processo Mafia Capitale, ma anche i futuri sbocchi legislativi proprio in materia di processo penale, hanno portato sotto i riflettori, la Cp di Roma ha ieri organizzato un importante convegno dal titolo ‘Lo stato della giustizia visto dagli avvocati’, confronto a più voci tra il procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, la deputata Anna Rossomando della commissione Giustizia della Camera, Giovanni Bianconi del Corriere della Sera, il presidente della Camera Penale di Roma Francesco Tagliaferri, l’avvocato Valerio Spigarelli ex presidente dell’Ucpi e il professor Giuseppe Di Federico autore del testo “I diritti della difesa nel processo penale e la riforma della giustizia. Le esperienze di 1265 avvocati penalisti”.

Una protesta quella dei penalisti, ha spiegato Tagliaferri rivolta in particolar modo contro l’articolo 146 bis del cpp che, come ormai dovrebbe esser noto, prevede l’estensione del processo a distanza per tutti gli imputati detenuti, con formula destinata ad imporre un modello di giustizia militarizzata destinata di fatto all’equiparazione dei reati contro la Pa e poi di altri reati, a quelli di mafia con relativa e conseguente adozione del cosiddetto doppio binario e correlati strumenti giudiziari processuali e investigativi propri della legislazione speciale. In gioco, però, come puntualizzato da Tagliaferri ci sono anche la prescrizione, la limitazione del diritto di impugnazione ed altre misure legislative considerate restrittive sul piano dei diritti. Una mole di contenuti affrontati nel testo del professor Di Federico, da cui emerge una fotografia che dell’attuale sistema processuale penale restituisce un volto impietoso. Quello di un processo che non rispetta il diritto di difesa. Come ha spiegato Di Federico è emersa dall’indagine una mancanza di controllo giurisdizionale resa ancor più drammatica quando si affronta il capitolo della raccolta di intercettazioni. E più in generale in cui il diritto di difesa è sostanzialmente angariato dall’esondazione del potere giudiziario.

Il nodo, inutile ripeterlo, resta sempre la mancata terzietà del giudice, la sua equidistanza tra la tesi accusatoria e quella difensiva, e dunque l’improrogabile quanto ostacolata urgenza di creare una distanza tra l’accusa e il giudice, attraverso una ragionata riforma delle separazione delle carriere che le agende politiche degli ultimi governo hanno ormai chiuso a doppia mandata nel cassetto, lasciando che essa sia meramente una cesura formale. Non a caso ad entrare nel mirino degli avvocati interpellati sarebbero proprio i giudici accusati di mancanza di terzietà. Ma al di là di queste considerazioni, poi, nel testo, come spiegato con allarme da Di Federico, l’Italia si attesta come l’unico paese in Europa, tra quelli con omogenei ordinamenti, in cui il grado di responsabilità non sia minimamente rapportabile alla libertà e all’indipendenza della magistratura, considerato il suo alto grado di invadenza nella sfera legislativa e politica in generale. Il problema anche qui, è antico, ed affonda le sue radici nella responsabilità di una cattiva e debole politica di aver assegnato alla magistratura quel ruolo di supplenza, e quel conseguente protagonismo, che l’hanno progressivamente trasformata in soggetto politico. Consentendo una sovraesposizione dei magistrati in tutte le sedi della vita pubblica del paese e la conseguente dilatazione, spiega Di Federico, del proprio potere come in nessun altro paese al mondo, sul piano legislativo, nella Corte Costituzionale, nel Csm, all’interno dello stesso ministero della Giustizia, sbilanciando fortemente il quadro democratico istituzionale. Non è difficile credere che sull’indagine siano da subito piombate le accuse e i tentativi di delegittimazione dal mondo della magistratura di essere un’indagine di parte, parzialità di cui Spigarelli ha ribadito la piena legittimità proprio perché ancorata a quella parte e a quei soggetti del procedimento che della pretesa punitiva subiscono la forza. Situazione, ha poi spiegato Spigarelli, peggiorata dagli ultimi orientamenti di un’azione legislativa che ha ceduto al ricatto dell’esigenza securitaria e del populismo giudiziario, pur a parole contestato dal premier Matteo Renzi, e che a un metro dal traguardo ha decapitato quelle leggi di aspetti fondamentali per le garanzie difensive, in generale per il raggiungimento del giusto processo e di una politica giudiziaria non cedevole ad inutili strette ed inasprimenti sanzionatori. Bordate dall’ex presidente dell’UCPI anche sul pericoloso ampliamento dell’area del doppio binario ossia della platea del processo di prevenzione, iniquo strumento che già vede l’allineamento di chi, specialmente in questa fase di emergenza legata alla minaccia del terrorismo jihadista, ritiene legittima la contrazione dei diritti costituzionali.

Questo il quadro generale. A riprova dell’egemonia che sulla produzione legislativa hanno le procure stesse. Accuse cui la voce della politica, nelle parole della Rossomando, è suonata un tantino fragile, incardinata per lo più, com’è stata, sul sapiente slittamento del discorso sul piano dei rapporti tra l’attività giurisdizionale e l’informazione nell’era digitale e sui legittimi meriti di un governo distintosi rispetto ai precedenti per capacità di far approdare in aula le iniziative di legge in altre epoche rimaste arenate in commissione e sulla puntualizzazione che nessun provvedimento è uscito con la medesima formulazione con cui è entrato in esame. Scontato l’assist del Procuratore Pignatone sulla ‘presunta’anomalia del sistema Italia con i suoi tre gradi di giudizio che consentono, ahinoi, di replicare in appello ciò che si è già sviluppato in dibattimento e con la mole di pagine di ogni sentenza. E ancora “la politica sulla rivisitazione delle pene ha dato qualche frutto interpretando la formula del ‘carcere estrema ratio’” ha spiegato l’esponente Pd, ma l’ autoencomio sui presunti meriti del governo per la complessiva normalizzazione della situazione carceraria sono apparsi fuori luogo considerando che alla spinta deflattiva sulle carceri l’ha data la sentenza della Corte Costituzionale sulla illegittimità della Fini Giovanardi che ha letteralmente svuotato gli istituti di pena di una buonissima percentuale di quel 40% di detenuti finiti dentro per droghe leggere. E considerato, la cosa è ovviamente passata sotto silenzio, che il rimedio risarcitorio interno, il cosiddetto 35 ter con cui l’esecutivo ha scantonato in prima battuta la scudisciata delle sanzioni della Cedu, è stato dichiarato ufficialmente fallito dallo stesso ministero della Giustizia. Con le conseguenze che ne deriveranno.

Ribadita, pur nel rispetto del diritto di cronaca, la linea della contrarietà all’uso delle intercettazioni come anticipazione del processo soprattutto alla luce della recente cosiddetta ‘autoriforma’ (altra protagonista del convegno) con cui il Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha vietato a Pm e polizia giudiziaria di inserire negli atti le conversazioni ‘irrilevanti’ ma funzionali alla gogna mediatica di fatto anticipando il governo che sulla disciplina della materia ha la delega. A motivare la circolare, che distingue tra ciò che è rilevante per le misure cautelari e limita le intercettazioni a strumento di indagine, e definita dalla Rossomando un ‘coraggioso’ slancio “utile a restituire centralità al ruolo della magistratura nei confronti della polizia e del suo protagonismo’, lo stesso Pignatone che ha motivata con la sacrosanta esigenza di “contenere l’impatto che intercettazioni, video e la pubblicazioni degli atti hanno sulla vita delle persone implicate e di contemperare i due momenti degli arresti e della diffusione del materiale, prevedendo un blocco temporale in cui sia possibile pubblicare solo l’ordinanza del giudice”. Un atto per ora unilaterale utile a rammentarci che nel nostro paese si è adottato un sistema processuale in cui la prova si crea nel dibattimento e non attraverso le anticipazioni di una stampa che, attraverso la pubblicazione degli atti del procedimento, si fa troppo spesso megafono della tesi accusatoria della procura. Ma su cui Spigarelli ha comunque formulato una critica. Già, perché affidare alla discrezionalità del Pm la valutazione di ciò che del materiale sia o meno ‘di pertinenza’ equivale a consegnarla al punto di vista di una sola delle parti investite nel processo. Di tutt’altro avviso -c’è da interrogarsi sulla effettiva utilità di questi convegni nel nell’individuare una sintesi tra esigenze inconciliabili come quelle della (cattiva ma maggioritaria) informazione e quelle delle garanzie processuali- Giovanni Bianconi. L’assunto è che l’informazione è diventata una componente del processo penale, che i processi sempre più coinvolgono gli interessi pubblici e che ormai “la stampa ha assunto una nuova funzione per cui attraverso le intercettazioni, come gli interrogatori e le informative della polizia giudiziaria svela ciò che accade intorno al mondo dei protagonisti del processo”. La conclusione, dichiarata legittima è che per la stampa ‘il processo finisce laddove il in realtà inizia’. E nell’eterna contrapposizione tra controllo etico e controllo sociale rivendicato dai paladini dell’diritto all’informazione, l’articolo 114 a che fine è destinato? Secondo Bianconi non ha più ragion d’essere, implicita l’obiezione ‘pavloviana’ per cui nessun giudice ammeterà mai di esser condizionato dalla pubblicazione di materiale prima del dibattimento: “Non poter riprodurre fedelmente materiale non coperto da segreto non è garantista e se è giudicato rilevante dal sistema dell’informazione è pubblicabile”. E la norma Pignatone che espunge alla fonte le questioni irrilevanti? Semplicemente “Un bavaglio”. Costernazioni mediatico-giudiziarie. L’unica certezza di fondo a restare in piedi è che l’informazione è interessata esclusivamente alla fase delle indagini preliminari. Che la gogna mediatica continui. Semplice.


di Barbara Alessandrini