giovedì 26 novembre 2015
“La schiavitù è libertà”. Nel mondo immaginato da George Orwell per il suo romanzo 1984, questa affermazione, secondo i dettami del bispensiero, è l’altra faccia dello slogan che è il pilastro della società distopica immaginata dall’autore: “La libertà è schiavitù”. Con un approccio psicologicamente simile, guru di culti religiosi totalitari, propugnatori di terapie pseudoscientifiche e leaders di gruppi terroristici affermano che i loro adepti sono liberi. In effetti, il tormento della libera scelta è loro risparmiato in un mondo in cui bene e male, giusto e ingiusto non si mescolano mai e sono facilmente riconoscibili. In questi mondi paralleli accade che ad essere individuato come nemico della libertà sia chi si impegna a svelare e denunciare le pratiche totalitarie e abusanti usuali in alcuni culti: subordinazione totale, rottura dei legami familiari, umiliazioni, sfruttamento economico, angherie.
Fin qui nulla di strano. È naturale che un dittatore descriva il suo potere come benevolo e salvifico e i suoi nemici come le forze del male. La cosa diventa molto meno logica quando ad utilizzare lo stesso armamentario concettuale è uno sparuto ma agguerrito manipolo di sedicenti “liberali”. Questi, utilizzando nobili principi come la libertà di culto e di associazione con la stessa perizia con cui un ubriaco maneggerebbe una fuoriserie, si schiantano nei vicoli chiusi della loro logica. A sentire questi paladini dei diritti civili, sembra che poiché gli adepti dei suddetti gruppi vi accedono volontariamente, e con eguale atto di volontà possono uscirvi, non esiste motivo alcuno di censurare l’operato dei promotori di tali aggregati, financo i più costrittivi e illiberali. Singolare argomentazione, perché manca totalmente di coerenza interna. Per comprenderlo basta uno sforzo cognitivo minimo. È perciò sorprendente che chi si professa liberale e difensore dei diritti umani inciampi proprio sulle basi del pensiero liberale.
Scriveva un gigante di quel pensiero, Gaetano Salvemini, che “il clericale domanda la libertà per sé in nome del principio liberale, salvo a sopprimerla negli altri, non appena gli sia possibile, in nome del principio clericale”. È esattamente ciò che fanno guru e santoni vari. Essi rivendicano per se stessi, in base al principio liberale, il rispetto di quegli stessi diritti che negano ai loro adepti, in base ai loro principi. Con la complicità di alcuni “liberali”, a quanto pare. È ovvio che andare a sindacare su pratiche e credenze di chicchessia sarebbe un atto illegittimo e un insulto alla libertà che nessuno si sognerebbe mai di fare. Similmente, è lecito persuadere chiunque a seguire qualunque stile di vita o credo. Alcuni improvvisati funzionari del “Ministero della Verità”, però, sembrano non avvedersi che alcune forme di persuasione sono indebite perché orientate ad acquisire un potere sull’altro, cosa che un sincero liberale non guarderebbe con simpatia. Infatti, il dato che far proselitismo non è reato non implica che tutte le forme di persuasione siano ugualmente degne. Una cosa è persuadere una ragazza a farci salire a casa sua perché ne siamo innamorati, ed un’altra è farlo perché vogliamo derubarla.
Gli apologeti delle sette, invece, si concentrano dolosamente sul momento della persuasione (“vogliamo forse renderla illegale?”), non sui suoi fini, né sulle sue conseguenze. Quanto a quest’ultime, si consideri che il ladro, se non altro, una volta compiuto il furto sparisce, non ci tiene a far parte della vostra vita futura, non pretende di essere ringraziato per avervi derubato, non si sogna di chiedere la vostra devozione, non vi chiede ulteriori impegni a suo beneficio. Eppure, alcuni dei nostri liberali alla vaccinara denuncerebbero il ladro, ma flirtano con il guru. Ne è un lampante e inquietante esempio il congresso di una Ong che riunisce esponenti di discussi gruppi spirituali e i loro apologeti di area liberal-radicale, in programma il prossimo mese addirittura a Montecitorio.
Ad ogni modo, è vero che non è facile stabilire il confine fra una persuasione indebita ed una “legittima”, ma di certo il criterio non può essere quello della mancanza di coercizione visibile. Un liberale dovrebbe saperlo. Étienne de La Boétie, in uno testi più cari a quanti appartengono alla tradizione liberale e libertaria, Discorso sulla servitù volontaria, lo dice chiaramente che non esiste assoggettamento reale che non sia concesso volontariamente dall’assoggettato: “(Il Tiranno) Da dove ha potuto prendere tanti occhi per spiarvi se non glieli avete prestati voi? Come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha ricevute?”. Nessuno ha mai interpretato queste parole come un avallo alla tirannia perché “liberamente” scelta, a partire dallo stesso La Boétie, che conclude: “Siate dunque decisi a non servire più e sarete liberi!”. Portare le persone a simili atti di dignità è da sempre la principale azione dei liberali che mai si sono fatti fermare dalla acquiescenza dei dominati. Si pensi alle mutilazioni genitali femminili o, più genericamente, alla sottomissione della donna in molte culture non occidentali, situazioni, seppur considerate naturali ed accettate da chi le subisce, il cui contrasto è da sempre nell’agenda dei partiti e movimenti che si richiamano agli ideali del liberalismo, primo fra tutti il Partito Radicale Transnazionale.
Si badi, poi, che quando si ha a che fare con culti e nuovi movimenti religiosi non si sta parlando di un consensuale rapporto sado-masochistico, limitato ad un aspetto dell’esistenza, in cui i contraenti sanno cosa attendersi e hanno ben chiari i termini del “contratto” di cui hanno definito i confini, inclusa la possibilità di exit. Nel caso delle sette si parla di consegnare completamente la propria autonomia secondo un progetto che non prevede spazi esclusi né possibilità di revisione della propria scelta. Infatti, nonostante la proclamata libertà di uscire dalle organizzazioni settarie, la situazione che si viene a creare in un culto è molto simile a quella descritta dal film “The Truman Show” in cui al protagonista, che vive l’intera vita sotto le telecamere, è fatto credere che il mondo esterno sia ostile e minaccioso. In un culto, le persone sono indottrinate ad aver una reale fobia del mondo esterno e ciò elimina la possibilità di “scegliere” di abbandonare il gruppo. Che una tale condizione possa essere considerata ideale dai nostri liberali in sedicesimo è veramente curioso. Sembra infatti che a fargli considerare libera la condizione dell’adepto gli basti la condizione dell’entrata nel gruppo. Se essa è stata “consensuale”, tutto ciò che avviene in seguito è, di conseguenza, legittimo. In tal modo, l’unico diritto che viene garantito è quello del promotore del culto, mai quello del seguace.
Quanto detto ci porta a dare il colpo definitivo al bispensiero di chi il liberalismo l’ha studiato sul Bignami. Basti pensare che la concezione da questi propagandata è che è libera la società che permette la creazione e la sussistenza anche di isole di totalitarismo (come le sette) al proprio interno. Orbene, questa concezione è apparentemente multiculturale e rispettosa, ma si rivela chiaramente basata su quel “diritto alla differenza” che i politologi riconoscono fondante il “razzismo differenzialista” quando applicato, invece che alle sette, alle minoranze culturali allogene. In altri termini, la proposta della Nuova Destra, francese come italiana, quella di non assimilare le minoranze immigrate in Occidente, bensì di creare delle isole culturali non occidentali all’interno dei Paesi industriali, è l’esatto contrario della democrazia, perché comporta spesso che lo Stato democratico rinunzi ad una parte dei propri diritti a favore di gruppi che nella democrazia non credono. In altri termini, laddove il liberalismo predica l’universalizzazione dei diritti e della libertà, la Nuova Destra promuove quale cavallo di battaglia concettuale la “valorizzazione delle differenze”. Lungi dall’essere espressione di democraticità ed egualitarismo, questa idea dell’incommensurabilità dei gruppi e delle culture è espressione di un antiuniversalismo consustanziale al razzismo biologico. Bene, quando assistiamo alla difesa dei culti totalitari in base al diritto alla differenza abbiamo di fronte la stessa logica di creazione di isole anti-democratiche nella democrazia, quindi la stessa pretesa che le società liberali rinuncino a parte di se stesse. Qui di Salvemini e Rossi non c’è traccia. Piuttosto, si può trovare non poco di Taguieff e de Bonoist. Così, come in un romanzo distopico, ci tocca la ventura di assistere a esponenti del mondo che si supporrebbe laico e liberale difendere pubblicamente organizzazioni tutt’altro che laiche e liberali come Scientology (La schiavitù è libertà); li vediamo promuovere pericolose terapie screditate dalla scienza, ma accreditate da qualche “movimento del potenziale umano” (L’ignoranza è forza); ne subiamo, da critici dei culti, i virulenti ed inquietanti attacchi (La guerra è pace).
(*) Presidente del Centro Studi Abusi Psicologici (CeSAP) e componente del Comitato Scientifico della European Federation of Centres of Research and Information on Cults and Sects (Fecris)
di Luigi Corvaglia (*)