sabato 14 novembre 2015
Pubblichiamo la relazione che ha introdotto i lavori del Tribunale Dreyfus dedicati al processo Mafia Capitale e alle polemiche tra penalisti e giornalisti che si è svolto il 12 novembre nell’Auditorium dell’Anmig di Roma.
Buongiorno e benvenuti a tutti, mi ritaglierò pochi minuti visto il considerevole numero di relatori a cui non voglio togliere tempo. Con una relazione per lo più illustrativa e riassuntiva. Utile, penso, a tracciare il quadro generale, delineare le motivazioni e ripercorrere le tappe dello scontro iniziato tra avvocati penalisti della Camera Penale di Roma, la Procura capitolina e i giornalisti delle principali testate che hanno seguito fin dalle prime fasi il procedimento di Mafia Capitale ed approdato su scala nazionale. Tanto che l’Ucpi ha deliberato l’astensione nazionale dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale per svariati giorni tra novembre e dicembre. Come nasce la protesta? La contestazione prende “solo” il via dalla singola vicenda processuale iniziata undici mesi fa con l’ondata di arresti che ha travolto Roma, per assumere una rilevanza più ampia ed investe temi come la compressione della funzione difensiva, la riservatezza delle indagini, le modalità con cui ad essa si relaziona l’informazione. Nel mirino dei penalisti in generale entra la direzione impressa alla riforma del processo penale da una politica che ha dato prova di arrendevolezza, condizionata dalle pressioni del binomio media-magistratura e da un’azione legislativa ritenuta restrittiva sul piano dei diritti. L’agitazione degli avvocati nasce appena l’informazione accende i fari sulle indagini di Mafia Capitale, il procedimento acquista subito il segno dell’esemplarità, e, come i procedimenti esemplari, si contrassegna da una forte pressione mediatico-giudiziaria. Ma lo scontro entra nel vivo quando il Tribunale di Roma decide, adducendo ragioni di sicurezza, risparmio e celerità, e con modalità ritenute autoritarie, di effettuare le udienze ricorrendo alla videoconferenza per gli imputati detenuti. Un processo a distanza ritenuto subito dai penalisti, non aderente alla legge e lesivo di diritti e garanzie degli imputati, che sono privati della presenza “in corpore vivo” alle udienze, lontani da chi li accusa, da chi li difende, da chi li giudica. Una formula processuale lesiva dei principi di equità, immediatezza e oralità su cui è incardinato il processo accusatorio. Ed imposta, si sostiene, dalle “frenesie efficientiste” e securitarie care a certi settori della magistratura, ma contrassegnate da incongruenze e corti circuiti della logica, di cui ci parleranno i penalisti. In virtù dei quali, però, rimane difficile non cogliere, nella protesta, oltre che una battaglia contro la disumanizzazione del processo, anche un tentativo di riportare uno spiraglio di raziocinio nel diritto. Quel medesimo raziocinio che dovrebbe incoraggiare il sano esercizio del dubbio ogni volta che la ragionevole durata del processo viene invocata come fosse un letto di Procuste o a seconda che si allunghino i tempi della prescrizione o che si contraggano i tempi di un processo con le connotazioni di Mafia Capitale, attraverso un calendario serratissimo delle udienze che quella ragionevole durata priva altri processi con cui sono impegnati i difensori degli imputati in Mafia Capitale. O a seconda che si invochi l’obbligatorietà dell’azione penale in certi casi o che alcuni Pm la trascurino in altri casi, come quelli che investono la pubblicazione di materiale giudiziario. Si diceva, l’azione dei penalisti è rivolta a ciò che avviene in Parlamento alla luce dell’evoluzione normativa attuata sul processo penale. Il ddl 146 bis, infatti, prevede l’estensione del “processo a distanza” per tutti gli imputati detenuti. Formula, denunciano, diretta a realizzare un nuovo modello di giustizia militarizzato che introduca stabilmente l’equiparazione dei reati contro la Pa ai reati di mafia con relativa adozione del cosiddetto “doppio binario” e dei conseguenti strumenti giudiziari, processuali e investigativi propri della legislazione speciale (saranno poi i giudici a confermare l’accusa di associazione a delinquere per associazione mafiosa (416bis) o se si tratti di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione). Mafia Capitale, denunciano i penalisti, di questo modello di processo sarebbe, dunque, la prova generale, contraddistinta dall’etichetta Doc, mediaticamente spendibile, della celerità, del risparmio e della sicurezza (gli imputati in Mafia Capitale sono per lo più incensurati). E, al momento, la protesta contro l’idea che la sicurezza delle udienze sia garantita solo senza gli imputati in aula ha portato il tribunale a revocare, parzialmente, le disposizioni precedenti: quattordici di loro partecipano in aula (tre restano a distanza: uno in detenzione di rigore in 41 bis, gli altri per via del capo di imputazione, essere a capo di un’associazione mafiosa).
L’altro terreno di scontro tra penalisti e giornalisti scaturisce da un conflitto antico, legato al rapporto tra informazione e giustizia, alla saldatura tra il diritto di cronaca e l’interesse di certe procure a servirsi della stampa come strumento di ribalta mediatica e di pressione nelle indagini, alla corsia preferenziale che collega giornalisti, procure, uffici di polizia giudiziaria e circuiti investigativi. Una commistione, denuncia la Camera Penale di Roma, di cui è prova il largo anticipo, rispetto all’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare, con cui alcuni articoli hanno anticipato il processo. E che produce un’informazione unilaterale, incardinata sulla pubblicazione di atti dell’accusa o del Gip, che inquina il processo e compromette la “verginità cognitiva” del giudice da tutelare fino al dibattimento, oltre a menomare il principio di oralità del processo. Informazione, infine che identificando il processo penale con la fase delle indagini, lede l’equilibrio tra accusa e difesa, cavalca e si àncora ad una pervasiva e regressiva cultura condannatoria impregnata di pulsioni vendicative e biliose, predisposta allo stigma morale e al giudizio etico, a cui consegnare ammanettamenti e sentenze di colpevolezza prima che esse siano pronunciate in tribunale. Eppure, dicono i penalisti, le norme di procedura penale che regolano i tempi della pubblicazione degli atti ci sono. Non rispettate. Volendo in gioco c’è anche il diritto-dovere che la giustizia desacralizzi il proprio ruolo per assicurare ai cittadini la comprensione dei meccanismi del sistema giudiziario e giurisdizionale come momenti decisivi della vita democratica di un Paese… È su questo terreno e sullo sfondo del ddl che assegna al Governo il compito di regolamentare le intercettazioni, che si è accesa la miccia tra penalisti e mondo dell’informazione a seguito di un esposto presentato dalla Camera Penale di Roma alla Procura della Repubblica, contro novantasei giornalisti che hanno seguito Mafia Capitale, per la pubblicazione di materiale non secretato ma di cui l’articolo 114 del Cpp vieta la pubblicazione fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare. Nell’esposto si chiede alla Procura della Repubblica che il Pm informi l’organo titolare del potere disciplinare, l’Ordine dei Giornalisti, così come stabilisce l’art. 115 del Cpp in caso di violazione del divieto di pubblicazione da parte di chi, per l’esercizio del proprio lavoro, necessiti di abilitazione dello Stato. Il mondo dell’informazione ha replicato con un fuoco di fila accusando i penalisti di censura, di minacciare i giornalisti solo per aver raccontato le vicende ossia per aver svolto proprio lavoro, di voler imbavagliare la stampa e il diritto di cronaca di puntare al carcere per i giornalisti. Si è parlato di “violazione della giurisprudenza Cedu” e di nodi normativi da sciogliere. Infine le accuse di due noti colleghi, Carlo Bonini e Lirio Abbate che hanno definito in più occasioni quella dei penalisti un’azione intimidatoria di stampo mafioso, la prova che Mafia Capitale esiste, come dire che la difesa degli imputati corrisponde alla difesa del reato. Questo il quadro generale. Su questi temi si dipanerà la discussione odierna tenendo la barra del timone puntata verso l’esigenza su cui si incardina lo stato di diritto, (perdonate il bisticcio di parole) di riplasmare i confini dei rispettivi diritti oltre che dei poteri dello Stato e delle carriere all’interno della magistratura. Un’occasione per ragionare su fare affinché il diritto di cronaca e all’informazione non recida quello degli imputati ad un giusto processo, anche trasformandosi in licenza al linciaggio ed alla gogna mediatica. E per affrontare l’urgenza che l’azione legislativa sia anche frutto di un controllo e di contrattazione da parte di chi, oltre a considerarsi sentinella dei diritti, dovrebbe esser capace di un’azione e di un dialogo che incida sulle politiche giudiziarie. La sfida è complessa: incrinare il muro culturale edificato in decenni di giustizialismo e contro cui si infrange la cultura delle garanzie e rimuovere l’equivoco che confonde garantismo con impunità, così come difesa dell’imputato con quella del reato. Tenendo presente che delle garanzie, quelle processuali rappresentano una fetta importante nella vita democratica, tanto da essere previste costituzionalmente (art. 24 e art. 111) nonché dalla giurisprudenza della Cedu, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
di Barbara Alessandrini