giovedì 5 novembre 2015
E così, a dispetto del buon senso, il Tribunale di Roma dove oggi si aprirà il processo denominato “Mafia Capitale”, ha disposto che i principali imputati, Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, potranno partecipare soltanto in videoconferenza dal carcere dove sono rinchiusi, in regime duro di 41 bis.
Se ci trovassimo in un Paese normale, la gente dovrebbe scendere in piazza per protestare contro un simile provvedimento, in quanto esso si palesa del tutto contrario alla logica dello Stato di diritto per una serie di ragioni. Innanzitutto, è sfornito di verosimiglianza l’argomento – usato dal Tribunale – secondo cui i due sarebbero pericolosi e potrebbero tentare la fuga ove condotti a Roma. La cosa fa sorridere in quanto le normali misure di sicurezza adottate in casi del genere bastano e avanzano a garantire lo stato detentivo in atto: non pare infatti che Buzzi e Carminati siano pericolosi terroristi dell’Isis, che possano perciò ottenere aiuto da decine di militanti in attesa del loro transito per le vie di Roma, allo scopo di liberarli con un’azione militare.
In secondo luogo, ritenere che partecipare ad un dibattimento complesso come si preannuncia quello che si terrà al Tribunale di Roma sia seriamente possibile mettendosi davanti da un televisore è illusorio: sarebbe come dire che guardare in tivù Inter-Milan o Roma-Lazio sia la stessa cosa che godersela dalle tribune di San Siro o dell’Olimpico. È evidente che non sia la stessa cosa: con il collegamento televisivo, infatti, è il regista che decide cosa vedere e cosa non vedere e soprattutto la visione si limita al particolare mentre sfugge completamente l’insieme di ciò che accade.
Prova ne sia che i registi televisivi di Sky-calcio spesso sono destinatari di colorite contumelie perché, attardandosi sui particolari, fanno perdere di vista lo sviluppo complessivo del gioco. Ora, come può essere che non si capisca che un imputato ha diritto pieno ed inalienabile a partecipare “di persona” al processo destinato a giudicarne le condotte? Del resto, mai nessuno si sognò di impedire a Riina di presenziare ai dibattimenti dei suoi numerosi e gravi processi. Mai nessuno lo impedì a Michele Greco, il Papa della mafia; mai nessuno ai brigatisti accusati dell’omicidio di Moro. Anzi, più è grave il reato contestato, più chi sia chiamato a risponderne deve essere messo in grado di difendersi con la pienezza dei mezzi consentiti, il primo dei quali è di sicuro la diretta e completa partecipazione al processo, anche per poter liberamente conferire col proprio difensore durante il suo svolgimento, cosa che , come è chiaro a tutti, in teleconferenza risulta assai complicata, farraginosa, e comunque gravemente pregiudicata.
Meraviglia che la coscienza giuridica e morale di tanti sembri essersi come depotenziata, assopita, sembri esser divenuta incapace di vedere una cosa del tutto evidente: e cioè che il processo di diritto non tollera simili escogitazioni, perché invece esige che la difesa sia sempre piena ed assoluta, altrimenti il prezzo da pagare è terribilmente alto. Il prezzo è la delegittimazione stessa dell’intera impalcatura processuale, perduta nella rincorsa di un’introvabile efficienza ma tragicamente dimentica delle esigenze più elementari della giustizia.
Ecco: è proprio la giustizia nelle sue più elementari espressioni, che sembra espulsa da casi del genere. Eppure, era mi pare Calamandrei ad affermare che mentre il Codice penale è per i mascalzoni, quello di procedura penale è per tutti e ciascuno di noi, per il semplice motivo che se nessuno di noi pensa deliberatamente di delinquere, nessuno di noi può essere del tutto sicuro di non esser mai accusato di averlo fatto. Ne viene che chi altera il Codice di procedura penale – anche se attraverso una legge che lo consenta – viola gravemente l’ordine oggettivo del diritto e della giustizia. Il che certo è il peggior modo possibile per perseguire un reo di corruzione.
di Vincenzo Vitale