mercoledì 4 novembre 2015
“Il sondaggista è uno specialista che, per sapere cosa pensa la gente, glielo va a chiedere”.
La persistente diffusione di rilevamenti statistici pre-elettorali che vedono questo o quel partito politico in ascesa o in declino, suggerisce di tornare sull’argomento per sottolineare alcuni aspetti che, chi visiona i dati, tende a non considerare.
Quando George Gallup, nel 1935, avviò la sua attività di indagine sull’opinione pubblica forse non immaginava che i poll si sarebbero diffusi in tutto il mondo come invece è accaduto né che, alla fine, avrebbe dovuto riconoscerne la debolezza se non addirittura l’inefficienza. La sua idea era semplice: intervistare un campione di americani, statisticamente significativo, per conoscere, in via induttiva, le tendenze elettorali generali e proporre poi una previsione dei risultati delle elezioni effettive. Tuttavia, la sua intuizione era forse troppo semplice e, infatti, l’insuccesso delle previsioni elettorali è piuttosto frequente.
A differenza dei sondaggi sui gusti o sulle attese dei consumatori, dove è più agevole catturare le tendenze in atto, i sondaggi pre-elettorali si scontrano essenzialmente con difficoltà che nascono dalla riottosità degli intervistati a dichiarare le proprie propensioni politiche. Mentre nei sondaggi utilizzati dalle indagini di mercato l’intervistato è spesso addirittura felice di esprimere la propria approvazione o disapprovazione verso un prodotto o un produttore, nei sondaggi elettorali ciò che si innesca nella mente dell’intervistato è prima di tutto una reazione di difesa e di protezione della propria inclinazione politica. Solo chi è orientato verso partiti o uomini politici estremisti o di protesta non ha incertezze né teme di rendere pubblica la propria preferenza e, anzi, pagherebbe per gridarla a tutto il mondo. Ma il grosso dell’opinione pubblica è intrinsecamente moderata e più riflessiva e non ama comunicare ad altri le proprie idee politiche.
È inoltre presumibile che molti intervistati dichiarino la propria preferenza per un partito ben sapendo che, alla fine, voteranno per un altro. Costoro assumono l’intervista come una sorta di votazione parallela, o virtuale, nella quale dare sfogo a pulsioni che, nella realtà della cabina elettorale, non si permetteranno. Anche i fallimenti continui degli exit poll, una ingenua evoluzione di quelli tradizionali, dimostrano non solo l’inattendibilità di campioni non razionalmente progettati ma anche quanto gli intervistati siano in grado di camuffare le proprie scelte elettorali. La vera ragione per cui i sondaggi elettorali continuano ad essere commissionati e, anche se non sempre, resi pubblici non è la loro efficacia previsionale ma il loro utilizzo, quando i dati lo consentono, come strumenti di persuasione.
di Massimo Negrotti