martedì 15 settembre 2015
Il nostro è sempre stato uno dei primi e pochissimi giornali impegnati nella denuncia della pericolosa deriva culturale che in una manciata di decenni, per impulso del giustizialismo mediatico e giudiziario avviato contro il nemico per antonomasia, Silvio Berlusconi, ha alimentato nel paese di un clima intollerante, ritorsivo, vendicativo, dedito al biasimo eticizzante ed alla punizione della colpevolezza morale da infliggere contestualmente e anche successivamente alle sentenze definitive emesse nei tribunali.
Ora, uscite dal torpore che le ha tenute lungamente in silenzio da qualche tempo anche le mosche cocchiere dell’intellettualismo di sinistra convertito al garantismo si affrettano a rivendicare la propria lungimiranza per aver previsto (ma quando? Ma dove? Ma chi?) il pericolo che la lotta al berlusconismo per via mediatico-giudiziaria avrebbe finito col radicare nella società il germe del populismo penale anche di fronte a reati di individui estranei alla politica. C’è di che rallegrarsi. Non è un copione inedito per la sinistra, o per alcuni suoi settori, ormai da tempo in corsa per reclamare a sé principi su cui ha taciuto per anni mentre liquidava con l’etichetta di garantisti pelosi chi, al contrario, ne rivendicava l’importanza prefigurando quale cultura si sarebbe radicata nel paese.
Nel prendere atto che i tempi si sono finalmente maturati anche per loro, quantomeno, però, ci si risparmino le lezioncine sulle previsioni dei pericoli dell’antiberlusconismo mediatico-giudiziario. Il danno, ormai è fatto. I più salienti fatti di cronaca giudiziaria degli ultimi anni ci rimandano l’immagine avvilente di un paese in balia di una simbiotica, odiosa e terribile osmosi tra la diffusa sete di colpevolismo, di linciaggio e di vendetta penale da parte dell’opinione pubblica educata al forcaiolismo e un collaudato sistema mediatico che nel tempo ha irrobustito gli strumenti attraverso cui celebrare i sempre più frequenti doppi processi con tanto di emissione di sentenza di colpevolezza a processo reale ancora in corso.
In questa dinamica l’opinione pubblica è stata messa in condizione di percepirsi ed agire sempre più protervamente come il braccio operativo di una giustizia punitiva, puntellata proprio da quella gogna mediatica che, per compiacere la sete di castigo da parte di lettori e telespettatori, alimenta queste pulsioni e un sentimento di condanna etica e di censura ritorsiva in modo quasi ossessivo nei confronti di chiunque abbia avuto a che fare con la giustizia. In barba a qualsiasi sentenza di assoluzione definitiva, in barba all’evidenza di pene scontate e al conseguente diritto di reinserirsi nel consesso civile fruendo del sacrosanto diritto all’oblio, pur sancito dalla Carta di Milano, ma vergognosamente ignorato dai giornalisti che preferiscono gettarsi sulla comunicazione che velica la pancia rancorosa della pubblica opinione invece che fare informazione corretta. Ed in barba al principio sacrosanto che in uno stato di diritto la responsabilità penale è personale, che non si può subire l’accusa di mera parentela o contiguità con un gruppo al cui interno alcuni operano in modo delinquenziale.
Poiché quella che si vorrebbe veder applicata, la responsabilità di gruppo, etnica o politica, prevista negli stati autoritari, apre la strada ad ogni forma di arbitrio. Dal processo Knox e Sollecito, al caso Scattone, dalle indagini sul caso Yara Gambirasio alla vergognosa docu-fiction sul ‘mediaticamente già colpevole in via definitiva’ Brega Massone che ancora attende il giudizio in appello ma è già stato condannato dai media, fino all’ultima sollevazione per la spericolata decisione di Bruno Vespa di intervistare i parenti del defunto Vittorio Casamonica e il loro avvocato, in una più che legittima puntata di Porta a Porta seguita ai fatti di cronaca della celebrazione funebre del boss che hanno esacerbato le polemiche di quest’estate seguite al funerale del boss del clan sinti (rispetto al quale, bisogna dirlo, in troppi si sono esercitati in uno strabico e ‘fradicialchicchissimo’ garantismo di maniera).
Sono tutte vicende in cui dominano la voglia di linciaggio, la pressione censoria e quel populismo penale che fa strame dei principi fondanti dello stato di diritto, delle garanzie previste dalla Costituzione, del diritto al giusto processo ribadito dall’articolo 6 della CEDU in conseguenza del quale si dovrebbe escludere la vergogna dei doppi processi mediatici. Su qualsiasi caso giudiziario ma anche post giudiziario, come in quello dei Casamonica ospitati da Vespa o per Scattone spinto a rinunciare alla sua prospettiva di reinserirsi nella società dopo aver espiato la sua pena, l’opinione pubblica è stata sollecitata ad esercitare un pericoloso potere di condizionamento, a riversare i suoi umori ritorsivi, l’implacabile rivalsa e lo spietato anelito al castigo e legittimata ad esercitare una riprovazione etica e farsi vindice di chi ha già scontato la sua pena.
Addirittura qualche fervente animatore della riprovazione morale si è spinto a indicare quali domande Vespa avrebbe dovuto formulare ai parenti di Vittorio Casamonica: Siamo alla dittatura del bene assoluto sotto la cui ala è agevole placare ogni tipo di nevrosi e insicurezze esercitata attraverso la censura e la pressione di massa e di cui quanto accaduto nella “Casamonichiade” è lo specchio più fedele. E c’è un particolare di cui non si è parlato: l’ennesimo rigurgito di foga forcaiola abbattutosi su Vespa e sulla sua pretesa di riconoscere a degli incensurati il diritto di parola e di replica in quanto esponenti di un clan notoriamente dedito ad attività delinquenziali, sono arrivati, grillini a parte, da una nutrito settore di quel Pd, che a livello di azione di governo sta formalmente tentando di vincere le resistenze interne e di difesa dei diritti individuali e delle garanzie.
Un impeto censorio così famelico da sollevare il fortissimo dubbio che tanta vis sanzionatoria non funga altro che da lavacro a basso prezzo per chi nel corso di decenni ha allevato e nutrito e alimentato il clan dei Sinti come utile bacino elettorale. Chi condanna ora lo fa dopo aver per decenni dato copertura al malaffare ed ora in nome di un’unica garanzia. Quella di buttare la propria zozzeria sotto il tappeto della questione morale. La pancia del Pd seguita a rispondere agli impulsi forcaioli e alle reprimende eticizzanti e i vertici ci si mettono lesti in sella quando questi consentono di mascherare le ‘colpe’ e le responsabilità passaste assurte a sistema.
di Barbara Alessandrini