mercoledì 12 agosto 2015
“La segretezza del voto protegge gli elettori non solo da pressioni e minacce, ma anche da se stessi. Infatti, se gli elettori premiano un partito o un leader i quali, poi, si dimostrano fallimentari nell’attività di Governo, essi, coperti dall’anonimato, non fanno la figuraccia che meriterebbero per aver fatto la scelta sbagliata”.
È quasi impossibile non avere dubbi e perplessità in merito alla democrazia, agli ondeggiamenti emotivi dei flussi elettorali e alle mediocrità che spesso emergono dal cosiddetto “senso comune”. Di conseguenza non è raro sentir parlare, in privato, di possibili modalità di governo di diversa indole, come quella che preveda qualche forma di accertamento della “preparazione” degli elettori a svolgere il delicato ruolo del voto. Tuttavia, vedere simili proposte pubblicate, come è accaduto anche recentemente, fa una certa impressione e non si tratta di una impressione positiva.
Innanzitutto, chi sostiene simili idee, si sente sicuramente predestinato a far parte della categoria autorizzata a votare o persino possibile giudice di coloro che chiedessero di poter votare. E questa è una solenne presunzione, tipica di larga parte del mondo detto intellettuale, il quale, sotto sotto, pensa che, se il voto fosse riservato a “chi sa”, cioè a gente come loro, le idee vincenti alle lezioni si rivelerebbero come le proprie. Hannah Arendt, nota per la sua avversione nei confronti della democrazia rappresentativa, osservava che gli elettori sono sempre dominati dalla preoccupazione di difendere i propri interessi particolari a scapito di quella che definiva la public happiness, come se questa consistesse in qualcosa di “superiore” rispetto alla tutela degli interessi individuali e fosse in grado di dispensare dall’alto felicità per tutti.
Ancora una volta, però, non è dato capire cosa consentirebbe ad una élite di evitare errori, miopie ed egoismi che caratterizzerebbero invece il suffragio universale. Naturalmente la democrazia non costituisce un sistema perfetto, ma sfugge su quale principio si basi la pretesa di questo o quello di saper indicare filtri sociali e culturali dalla cui introduzione la politica, divenendo, o meglio, tornando elitistica, trarrebbe sicuri miglioramenti. È probabilmente per tutto questo che persino uomini come Winston Churchill, fortemente scettici e ironici nei riguardi della democrazia, non si sarebbero mai lasciati prendere dalla presunzione di conoscere e indicare qualche via migliore.
Ma, poi, ci sono le proposte più, per così dire, metafisiche. Quelle che, dal Medioevo in poi, passando per la Rivoluzione francese, partono dal presupposto, piuttosto semplicistico, che, se si vuole ottenere il bene comune, il modo migliore è far decidere le cose politiche da tutti, in un colpo solo, in piazza, come se, lì, la “coscienza collettiva”, di norma latente, si rivelasse in tutta la sua magnifica realtà manifesta. La chiamano democrazia diretta, ormai scomparsa come metodo fondamentale e ancora presente solo in piccole comunità, come qualche modesto cantone svizzero, o altrove per altrettante ragioni di rispetto per la tradizione locale.
In definitiva, è certo che la debolezza più notevole della democrazia rappresentativa consiste nella permanente esposizione degli elettori al rischio di commettere errori di valutazione a causa della propria miopia, del proprio egocentrismo o della propria ignoranza, anche se, alla fine, le propensioni più rischiose o irrazionali finiscono per elidersi a vicenda, quasi algebricamente. Ma è assai grave non comprendere che una simile attitudine, lungi dall’essere prerogativa di questo o quel ceto, è statisticamente distribuita in ogni ambito sociale e anche, va da sé, presso i rappresentanti che vengono eletti. Purtroppo, non sembra esistere alcuna alternativa a questa distribuzione, intrinsecamente “democratica”.
di Massimo Negrotti