Senso inverso alla giustizia

sabato 18 luglio 2015


Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, chiede - per l’equilibrio tra giustizia ed economia - che la legge ne circoscriva il perimetro d’azione, e che si migliori la “sensibilità economica” dei giudici puntando su formazione e specializzazione, rivedendo infine il Diritto puntando su competitività e libera iniziativa. Belle e nobili richieste, ma totalmente inutili. Squinzi forse non ha chiaro da dove veniamo e dove andiamo. Detto brutalmente, anche quando in Italia dovessero aversi tutte le condizioni richieste dal presidente di Confindustria, la giustizia italiana non funzionerebbe. Non è un problema di equilibrio stabilito con legge certa, né di “sensibilità economica” più o meno sviluppata o inculcata nei giudicanti, perché il problema è di sistema. In Italia vige fondamentalmente una giustizia ingiusta data dal sistema, scelto e sviluppatosi, più o meno consentito, errato. Vale a dire che non solo il meccanismo pubblico di reclutamento dei giudici è sostanzialmente inefficiente, stanti le tante e tali raccomandazioni e segnalazioni atte a rendere giudici intere generazioni, come ad esempio gli Esposito (nonno, padre, zio, figlio e nipote), ma ciò che non va proprio è dato dal fatto che il sistema della giustizia è pubblico. Non funziona cioè la giustizia “costruita” e “comminata” dal pubblico invece che con forme e modi di tipo privatistico. Non si possono mettere intere generazioni sedute a tavolino stipendiate a fine mese qualsiasi cosa facciano. Se si possono pensare validamente forme miste di pubblico e privato nel settore penale, ciò è deleterio prestandosi a discrezionalità, arbitrarietà e malfunzionamento nel settore civile.

In ultimo devono vigere forme squisitamente private quali arbitrati, conciliazioni, mediazioni, sistemi privatistici cosiddetti di risoluzione alternativa delle controversie. La giustizia assoluta è impossibile per noi uomini. Ciò cui si può e si deve ambire è una giustizia unicamente possibile. Si deve rincorrere e costruire la giustizia possibile, in grado di camminare da sola, cioè non a ridosso dello Stato e delle nostre tasche, ma autonoma economicamente, che vuol dire che chi vuole giustizia paga l’arbitro o la procedura di mediazione, predisponendosi a cercare un accordo possibile.

Bisogna dunque cambiare verso alla giustizia. Traghettare l’esistente nel privato tramite la responsabilità dei giudici dotati come ogni categoria lavorativa di assicurazione privata e tramite anche la netta separazione dei giudicanti separati ab origine, a cominciare dalla selezione per finire agli stessi uffici, tra inquirenti e giudicanti. Non è un caso che oggi si conoscano tutti tra loro e operino in maniera conseguente. Una netta separazione dei giudici ed una gravosa responsabilità in capo ad essi faranno da trampolino di lancio verso forme efficienti di giustizia (possibile) di stampo privatistico.

Oggi il sistema sbagliato che si è via via affermato - allargandosi a dismisura - riguarda le forme scandalose di protagonismo e di sostanziale ed effettiva malagiustizia, che consentono al giudice di turno di pensare di stare sempre dalla parte del manico e che mai il coltello potrà infierire, e discrezionalmente, contro di lui. Al contrario, essendo tutti gli uomini uguali, è bene che si diano sistemi di giustizia tali da avere sempre presente che il coltello fa male, molto male.

Le norme, infine, devono essere scritte né esistenti solo nella testa malata o meno di un dato giudice, né tantomeno create dalla giurisprudenza. La legge è scritta il più chiaramente possibile dal solo legislatore, mai interpretata a discrezione. La certezza del diritto è fondamentale; laddove non scritto, approvato consensualmente dalla società, non deve esistere. Altrimenti succede come oggi, e cioè che le leggi vengono fatte ad personam e valgono solo per quella persona, appunto. Il diritto, la norma e la legge sono di tutti, li facciamo noi tutti. Una giustizia insomma che sia in grado di funzionare per tutti. Una giustizia diffusa, possibile, efficace, condivisa e valevole per ognuno.


di Cesare Alfieri