La sintesi greca

martedì 14 luglio 2015


In politica creare precedenti è sempre rischioso ed è proprio per questo che, al di là delle peraltro notevoli questioni economiche e finanziarie, si è faticosamente cercato di evitare l’uscita della Grecia dall’Eurozona. Alcuni altri Paesi, in effetti, avrebbero potuto entrare nel circolo vizioso di trattative estenuanti sul proprio debito pubblico e, alla fine, trovarsi fuori dall’area dell’Euro. Invece, il cosiddetto “effetto domino” potrebbe ora agire in senso opposto e, grazie al “precedente” di una conclusione positiva della vicenda greca, rendere sostanzialmente impraticabile ogni altra potenziale uscita.

La conclusione è che dalla zona Euro non si esce e che l’Europa mostra una robustezza maggiore di quanto i pessimisti pensavano. Si ha un bel dire che un’Europa unita “solo” sul piano economico e finanziario non corrisponde alla necessità e agli ideali europeisti. Di fatto, l’unità monetaria ed economica è la base fondamentale su cui qualsiasi altro accordo e qualsiasi altra integrazione, vantaggiosa per tutti, può intervenire. Immaginare i diciotto Paesi che adottano l’Euro uniti sul piano politico ma non su quello monetario è infatti assurdo, perché è solo sulla scorta di regole di contabilità nazionale omogenee che si può prevedere una graduale armonizzazione delle politiche locali e delle stesse culture nazionali.

Sarebbe dunque opportuno che i vari movimenti “anti-Euro”, che si collocano, manco a dirlo, nelle estreme posizioni di destra e sinistra, si facessero una ragione dello stato delle cose e capissero che indulgere o stimolare le masse facendo loro sognare un “felice ritorno” alla completa sovranità nazionale, alla moneta storica locale e all’insensato Bengodi che vi era associato, è un modo di fare politica decisamente miope e persino colpevole. La Grecia dovrà ora porre mano a riforme che anche senza l’Europa avrebbe dovuto da tempo avviare. E la cosa vale anche per l’Italia.

Se noi, i greci ed altri non fossimo stati costretti a mettere i conti in ordine e ad introdurre riforme saremmo davvero ai margini del mondo occidentale e destinati a soccombere di fronte ad ogni scricchiolìo economico internazionale. Stupisce, si fa per dire, che i movimenti di sinistra - che per anni ci hanno asfissiato con il concetto di un generico “cambiamento” - si oppongano ora al cambiamento più urgente che consiste, appunto, nella modificazione e sistemazione dei conti pubblici che, da Marco Minghetti in poi, sappiamo essere il più pesante fardello su qualsiasi ipotesi di sviluppo socio-economico.

Certo, lo stupore non è altissimo se pensiamo alle proposte di movimenti come la Lega Nord che, nata in un bar di Varese trent’anni fa, continua a ragionare come se governare fosse la stessa cosa che dare le carte al bar dello sport e che, nonostante il suo slogan “Prima il Nord”, fa finta di non capire la correttezza delle critiche alla Grecia e all’Italia dei Paesi del Nord; oppure alle posizioni dei pentastellati, tutti loro e puritanesimo senza però alcuna intenzione di assumere responsabilità dirette per paura di dover constatare quanto sia difficile conciliare ad ogni passo la tanto autoproclamata purezza e la necessaria determinazione politica.

A stupire, semmai, sono i vasti circoli di sinistra all’interno e all’esterno del Partito democratico, secondo i quali il cambiamento dovrebbe consistere in un’ulteriore accelerazione del dirigismo e del carico economico da parte dello Stato, anche a costo di litigare con il resto d’Europa, ritenuto troppo liberista. Cioè la ricetta che per decenni l’Italia ha seguito approdando esattamente al punto in cui siamo e dal quale stiamo cercando di emanciparci anche grazie alle pressioni europee. Ma, in fondo, anche questo è uno stupore limitato perché alle sinistre italiane, e greche, l’Europa non è mai interessata più di tanto. Anche ai tempi delle battaglie ideali dei federalisti, negli Anni Sessanta, ad opporsi (guarda caso) erano il Partito comunista e il Movimento sociale italiano. Zoccoli duri che, mutati i termini linguistici con cui si autodefiniscono, rappresentano la nostra più antica zavorra culturale e politica della quale i vari movimenti anti-europei non sono altro che una miserevole e magari inconsapevole imitazione.


di Massimo Negrotti