sabato 20 giugno 2015
“Nei miei studi sul modo e grado con cui differenti sistemi economici e politici si adeguino rispettivamente alle convenzioni internazionali e al rispetto dei diritti umani sono arrivato alla conclusione che per trovarsi di fronte a gravi violazioni non è necessario parlare di stati dittatoriali, che per definizione violano i diritti dei loro cittadini. La violazione dei diritti individuali si consuma, in forma più o meno accentuata, in tutti gli Stati del mondo e l’Italia sotto alcuni profili detiene addirittura un primato”.
Antonio Stango (nella foto), segretario del Comitato Italiano Helsinki ed esperto di relazioni internazionali, dirigente radicale, da più di trent’anni impegnato a livello internazionale sul fronte della tutela dei diritti umani (per anni ha ricoperto la carica di direttore del Kazakhstan Human Rights Support Program di Freedom House), non ha dubbi, anche l’Italia si è ritagliata un posto “di tutto irrispetto” nella casistica dei Paesi che violano i principi dello stato di diritto. Il fatto che poi “nei Paesi di democrazia politica o liberali, come vengono definiti dal rapporto annuale di Freedom House, le violazioni non sono sistematiche su tutta la gamma dei principi formalmente e universalmente riconosciuti ma sono occasionali e limitati ad alcuni aspetti” non ne attenua la gravità. La cultura delle garanzie e dei diritti, d’altronde, nel nostro Paese è decisamente asfittica, soprattutto sul piano del sistema giudiziario e dell’informazione, due ambiti strettamente e patologicamente osmotici. Lo dimostrano i ripetuti interventi sanzionatori o di prospettata messa in mora con cui la Cedu impone all’Italia dei correttivi sul piano della tutela delle garanzie spesso annichilite in ambito giurisprudenziale. Un’azione di controllo e indirizzo, quello della Corte Edu, non a caso destinata a rivestire un ruolo sempre più preponderante nell’ordinamento giuridico italiano e sul sistema giustizia in generale.
Com’è messa l’Italia e quali protocolli viola sotto il profilo delle garanzie?
“Fin dagli Anni Ottanta la mia attenzione sulla situazione dei diritti umani si è focalizzata sul sistema giudiziario e sul trattamento delle persone detenute, o perché in attesa di giudizio o perché condannate. Un altro tema è la libertà dei media, con il correlato diritto dei cittadini di essere informati, in particolare se si affronta la partecipazione politica. Ulteriore filone di analisi è il trattamento dello straniero”.
Per ora concentriamoci sul sistema giustizia che dovrebbe rappresentare la fonte e al tempo stesso il baluardo di tutti i diritti e delle garanzie per il cittadino e non lo è affatto. Il ministro Andrea Orlando ha ricondotto il principio del garantismo a quello di non colpevolezza, alla funzione rieducativa della pena, all’autonomia dei magistrati e al giusto processo. Sono valori rispettati?
“In Italia l’autonomia dei magistrati è effettiva. La funzione rieducativa della pena è una mera ipotesi, il giusto processo è negato sistematicamente. Ci troviamo in stato di trasgressione a partire dalla fase giudiziaria, in cui la ragionevole durata del processo è costantemente violata per un problema antico, che investe sia il settore penale che quello civile. In media nei tre gradi si arriva complessivamente a cinque anni, con punte molto più alte. Ogni anno vanno in prescrizione non meno di 110mila procedimenti, e anche questo configura una denegata giustizia: se la prescrizione spesso favorisce gli accusati, sempre lede i diritti delle vittime. L’Italia resta uno dei Paesi di democrazia politica con la più irragionevole durata dei processi, tempi che vanno molto oltre i termini prescritti dalla Cedu e poi sanciti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. In gioco non ci sono soltanto i presunti colpevoli o le vittime di un crimine, ma anche i familiari. Anche in assenza di casi estremi di condanna di innocenti, come nel caso Tortora, la lunghezza dei processi è una forma di illegalità”.
Come si posiziona l’Italia in relazione alle condanne da parte dell’Europa?
“L’Italia è ai primi posti per numero di condanne fra gli Stati del Consiglio d’Europa, spesso anche più della Turchia e della Russia. Quanto al principio di non colpevolezza, ritengo che sia generalmente rispettato (ma con orribili eccezioni, fra le quali, ripeto, il caso Tortora) da un punto di vista formale; troppe volte, però, si proclama la colpevolezza di un imputato prima ancora che il processo inizi. La reputazione e la vita stessa di una persona possono esserne rovinate”.
Prima parlava di diritto all’informazione. La libertà di stampa in altri Paesi non è disgiunta dal diritto al processo equo. In Italia la rincorsa da parte dei media a inseguire ansie punitive e colpevoliste con programmi, servizi e docu-fiction che si traducono nel cosiddetto “doppio processo”, non confligge con l’articolo 111 e col principio di non colpevolezza dell’articolo 27 della Costituzione? Il diritto al giusto processo non dovrebbe essere, oltre ad un diritto dell’accusato, anche un interesse pubblico?
“Accanto al processo giudiziario viene infatti celebrato il ‘processo mediatico’, di cui sono responsabili sia la bassa qualità generale del sistema dei media che le frequenti, illegali diffusioni di notizie da parte di elementi della magistratura. È devastante l’uso improprio delle trascrizioni di intercettazioni telefoniche e ambientali, delle quali è giusto che gli organi investigativi possano disporre ma che non dovrebbero mai, in un Paese civile, essere strumento di campagne di propaganda mediatica contro imputati o anche persone estranee a qualsiasi reato”.
Il diritto ad essere informati può confliggere con una tutela individuale come il diritto all’oblio previsto nella Carta di Milano per gli ex pregiudicati esposti, nella delicata fase del reinserimento sociale o nell’accesso ai benefici penitenziari o a misure alternative, che rischiano di essere bollati a vita ed identificati col reato commesso. Trova sia un diritto rispettato?
“Non ne sono certo. Ma è certo che il limite debba risiedere nella professionalità, nella decenza, nella cultura, nell’educazione degli operatori dei media. Ritengo, però, quasi impossibile e probabilmente non giusto fissarlo per legge, a meno che non si ricada in reati già previsti come la diffamazione, ad esempio”.
Torniamo al provvedimento che con procedura d’urgenza ha allungato i termini della prescrizione. Non trova che questo rappresenti un’altra violazione del diritto del singolo di non essere sottoposto ad una pretesa punitiva in perpetuum, proprio mentre l’Europa ci chiede di rispettare la ragionevole durata del giusto processo? Tanto più che paradossalmente il principio della difesa delle garanzie e della ragionevole durata del procedimento penale è inserito nel testo della riforma della prescrizione oltre che in quello del ddl sulle modifiche al Codice di procedura penale.
“Allungare i tempi di prescrizione è un’altra ammissione di incapacità di fondo del sistema giudiziario, oltre che una delle consuete modalità di mostrare una ‘faccia feroce’ di fronte alle richieste di inflessibilità da parte dell’opinione pubblica quando scoppiano alcuni scandali – come quello di Mafia Capitale. Dovrebbe essere chiaro che l’allungamento dei tempi non solo non risolve il problema, ma lo aggrava. La lotta alla corruzione richiede innanzitutto estrema trasparenza ed essenzialità della macchina amministrativa e un efficace sistema di controllo; quindi senz’altro rigore, giudizi in tempi ragionevoli e pene certe, ma non atteggiamenti di apparente durezza e, come avrebbe detto Leonardo Sciascia: terribilità”.
Al fine di snellire il sistema, però, si punta a modificare il regime delle impugnazioni, specialmente il ricorso in Cassazione. L’accusa può, invece, ricorrere in caso di assoluzione in primo grado. Questa riduzione dei gradi di giudizio non viola l’articolo 111 della Costituzione che stabilisce che contro tutti i provvedimenti giurisdizionali è sempre ammesso il ricorso per Cassazione, non è una contrazione dei diritti del cittadino oltre che della difesa?
“La Cassazione dovrebbe giudicare solo sulla legittimità dei processi di merito, annullando sentenze o parti di sentenze per violazioni di diritto materiale o procedurale, per vizi di motivazione o per difetto di giurisdizione. Il fatto che si tenda sempre, quando si tratta di condanne a pene detentive, a rivolgersi alla Corte di Cassazione mi sembra in sé un elemento patologico del nostro sistema giudiziario: possibile che tante sentenze, quasi sistematicamente, offrano lo spunto per un ricorso, tanto da far ritenere normale che i gradi di giudizio debbano sempre essere tre? Il Primo Presidente della Suprema Corte ha dichiarato che se, per assurdo, non vi fossero altri ricorsi, occorrerebbero ad essa più di tre anni per smaltire quelli pendenti. La sfida a mio avviso è essenzialmente proprio nel non colpire le garanzie della difesa mentre si cerca, come è opportuno, di snellire il sistema giudiziario. In questo senso, la facoltà del Pm di appellare le sentenze di proscioglimento dovrebbe essere ridotta, definendo una serie di casi in cui questo non possa accadere”.
Il potere politico di certi settori della magistratura si è dilatato tanto da sconfinare sul piano legislativo che non le compete. Questo non finisce per condizionare anche le dinamiche processuali e indebolire l’esigenza di tutela e salvaguardia dei diritti di difesa e delle garanzie dell’imputato?
“È una tendenza piuttosto tipica dell’ordine giudiziario italiano come insieme, naturalmente non di tutti i magistrati. Direi che personalità rappresentative della magistratura hanno interferito e interferiscono col normale processo legislativo, così come nell’attività di Governo. All’interno del ministero della Giustizia operano poi molti magistrati fuori ruolo che occupano posizioni chiave nell’ambito dell’attività amministrativa. Quando poi capiti un ministro della Giustizia che non abbia particolare competenza in materia, è verosimile che segua ciò che l’apparato dei magistrati suggerisce. Lo stesso Parlamento è stato, nella sua attività legislativa, influenzato dai pareri di autorevoli magistrati. Nell’86/87 fui con il Partito Radicale tra i promotori dei referendum sulla ‘Giustizia giusta’ e uno dei referendum (allora non ammesso dalla Corte Costituzionale) sarebbe stato per cambiare il sistema di elezione del giudici del Csm, che era sulla base di liste e non di nomi, cioè con blocchi politici di magistrati. Il Csm, organo di autogoverno giustamente stabilito dalla Costituzione, mi sembra orientare spesso le leggi. E queste troppe volte sono impostate sull’emergenzialità, sicché ad esempio si decide di tagliare o di ampliare i tempi di prescrizione a seconda degli allarmi del momento”.
Sistema penitenziario. Anche qui lo spettro dell’onta politica e della pesante messa in mora da parte della Cedu per le condizioni disumane e degradanti dei detenuti delle carceri italiane ha spinto il Governo ad occuparsi del sovraffollamento carcerario accelerando, almeno formalmente, una riflessione sul nostro sistema di esecuzione della pena avviata in occasione degli Stati generali delle carceri. Nonostante sia lievemente rientrata l’emergenza sovraffollamento, la condizione in cui vivono i detenuti resta ai limiti della legalità. Soprattutto perché vi viene puntualmente negato il principio costituzionalmente sancito dall’articolo 27 sulla natura rieducativa e riabilitativa della pena. Che fare? un piano edilizio, accesso a pene alternative, al lavoro, diritti sanitari…?
“Almeno dagli Anni Ottanta in Italia la situazione di sovraffollamento è stata sempre grave o gravissima, pur con numeri variabili. La Cedu ha sentenziato con chiarezza che l’esasperata restrizione fisica e psicologica legata al sovraffollamento è una forma di tortura. La mancanza di lavoro è un problema prioritario: in Italia il numero di coloro che possono fruire di opportunità di lavoro all’interno delle strutture penitenziarie è esiguo, pochissime le carceri che lo consentono. Il numero di detenuti, sceso sotto i 50mila, resta superiore alla capacità di posti delle strutture, pregiudicando la possibilità di una vita degna e qualsiasi prospettiva di riabilitazione nel periodo in cui si è privati della libertà. Mancano strutture rieducative e di istruzione e vi sono carenze di personale assistenziale, medico e di custodia. Gli agenti di polizia penitenziaria al momento sono impegnati in turni massacranti, con condizioni di stress che in alcuni casi hanno portato al suicidio. In Italia ritengo necessaria l’istituzione di centri di detenzione attenuata. L’alternativa oggi è o in carcere o agli arresti domiciliari, che funzionano per coloro che hanno molto da perdere, non per chi è inserito in gruppi sociali marginali gestiti dalla criminalità. Un regime di custodia attenuata e riabilitativa sarebbe utile”.
Una seria riforma del sistema di esecuzione della pena finora è stata ostacolata dal clima e dalle istanze punitive e vendicative della pubblica opinione e dalla necessità della politica di ottenere dividendi elettorali. Non c’è urgenza di modificare la cultura del Paese con una massiccia informazione sui diritti e su come il processo riabilitativo si traduca in minore recidiva e quindi in aumento della sicurezza?
“Ci sono almeno due problematiche in proposito e una è questa certamente. L’altra a mio avviso riguarda una categoria di persone, come denunciato più volte dai radicali, da Rita Bernardini in particolare, ed è l’insieme di coloro in carcere per reati legati al piccolo spaccio di sostanze stupefacenti, compresa la marijuana ormai legalizzata in molti stati. Di fatto la durezza dello Stato attraverso il sistema penitenziario sembra esprimersi soprattutto per quel tipo di reato. Un altro aspetto è stata la gestione truffaldina e criminale dei piani di edilizia carceraria. In questo Paese sono state costruite pochissime nuove strutture carcerarie, anche se ne sono state chiuse di ultrasecolari che erano fuori dai requisiti oggi accettabili. Sono state costruite carceri di massima sicurezza, per detenuti in regime di 41bis per reati di mafia, ma non si è speso adeguatamente per il sistema penitenziario nel suo complesso e in riferimento allo scopo rieducativo che la detenzione deve avere. Molti denari sono finiti male, come accade per moltissime opere pubbliche in Italia. Di contro, sono stati presi provvedimenti che sembrano creati apposta per suscitare ondate di populismo forcaiolo. Ad esempio, la legge che consente di non entrare in carcere per fatti di lieve entità è comprensibile ma devono esserci dei limiti, soprattutto per le recidive multiple e specifiche. L’opinione pubblica riceve quotidianamente dosi massicce di notizie di persone che commettono frequentemente lo stesso tipo di reato e vengono rilasciate subito. La mancanza di punibilità suscita reazioni che portano a dare consenso a movimenti populisti che invitano a ‘gettare la chiave’, possibilmente senza nemmeno il processo. Ritengo che vada realizzato un piano carceri serio e potenziato tutto il personale, compresi agenti di custodia, operatori sanitari, educatori, psicologi. Si tratta di grossi investimenti economici, certamente, ma nessun investimento più di questo può essere utile al nostro sistema paese. L’inefficienza (oltre che la crudeltà) del sistema penitenziario e quella del sistema giudiziario proiettano l’immagine di un Paese dove non è possibile vivere civilmente, dove gli imprenditori non investono o da dove fuggono perché non si sentono garantiti”.
Bisogna chiarire che la tutela della dignità e la congruenza costituzionale dell’esecuzione della pena non significano rifiutare la detenzione perché su questo equivoco si consolidano le ansie punitive…
“Certo, non ritengo si debba essere immuni dalla possibilità di entrare in carcere. Viviamo in una società reale che ha bisogno di un sistema penitenziario, ma è urgente che si renda effettivo il rispetto da parte dello Stato del principio costituzionale della rieducazione e riabilitazione e della dignità del singolo. Finché questa strada non è praticata è necessario tentare qualsiasi via per evitare il crollo del rispetto della persona umana. La proposta dell’amnistia da parte di Marco Pannella si muove in questa direzione. Si tratta di circoscriverla, ma in Italia non essendoci una possibilità di dibattito serio si finisce sul fallace piano del tutti dentro o tutti fuori”.
Nella sua esperienza internazionale ha conosciuto realtà carcerarie cui l’Italia potrebbe ispirarsi sotto il profilo del miglioramento in materia di edilizia penitenziaria e di un sistema che rispetti il nostro articolo 27 e l’articolo 6 della Cedu sul fine rieducativo degli istituti di pena?
“Ho partecipato a missioni di monitoraggio in diversi Paesi, analizzato rapporti e preso parte a discussioni in sedi internazionali come il Comitato per la Prevenzione della Tortura a Strasburgo. Ho visitato molte strutture detentive anche nell’estremo oriente siberiano russo e in Kazakistan e ora ho in programma di recarmi in alcuni nuovi istituti in Azerbaigian, che sta attuando un non facile programma di adeguamento agli standard previsti dal Consiglio d’Europa. Notoriamente, sono soprattutto gli Stati scandinavi ad avere un sistema carcerario che tende al fine rieducativo della pena, con spazi idonei a rispettare la dignità umana della persona detenuta, cura delle sue condizioni psicofisiche e concreta possibilità di svolgere del lavoro. In altre aree, come alcune dell’ex Unione Sovietica che, al contrario, hanno una lunga storia di trattamenti molto pesanti dei detenuti, ho trovato tuttavia qualche aspetto che ritengo positivo: ad esempio, la disponibilità di spazi per incontri riservati anche intimi con familiari e la presenza di istituti a regime attenuato, o colonie penali per persone ammesse al lavoro esterno, che almeno potenzialmente dovrebbero costituire un luogo di transito verso il reinserimento sociale”.
di Barbara Alessandrini