Perché non cresciamo

giovedì 18 giugno 2015


Dario Di Vico sul Corriere della Sera con un suo editoriale finalmente inizia a scrivere ciò che noi, meno autorevolmente, diciamo da mesi: “La nostra crescita è minima, anzi aggiungiamo ridicola”. Solo l’enfasi oracolare del Presidente del Consiglio e la grancassa mediatica che lo sostiene hanno in queste settimane tentato di far passare il contrario e lo hanno fatto in barba al buon senso degli italiani che, economisti o meno, stupidi non sono.

È dall’inizio del percorso di questo Governo che si sbaglia sia in fatti, che in parole. Non se ne può più, le due cose messe insieme hanno generato fra la gente e nel Paese un profondo malcontento. Non se ne può più di bugie, di scandali, di ruberie, di revisione della spesa che non c’è, di tasse aguzzine ed estorsive, di burocrazia inutile e borbonica, di banche che negano ogni facilitazione al credito, di enti locali zeppi di malaffare che sono capaci solo di mettere addizionali.

Del resto, caro Di Vico, può crescere un Paese dove il drenaggio fiscale non solo è usurario ma è anche utilizzato non per migliorare e stimolare la qualità dei servizi offerti, bensì per tappare i buchi di sperperi e disonestà? Può crescere la domanda interna in un Paese dove non solo quel che resta nelle tasche dopo Tasi, Imu, tassa sui risparmi e via dicendo è quasi niente, ma dove acquistare o investire espone al rischio di accertamenti persecutori da parte del fisco? (vedi il limite dei 999 euro, lo spesometro, il redditometro, ecc.). Può crescere un Paese che ha in corso un contenzioso fiscale con i contribuenti immenso e che, grazie alla demenzialità delle norme, fa sì che la sorte iniziale con multe e sanzioni raddoppi se non triplichi, con il risultato sia di impoverire e comunque scoraggiare anche i meglio intenzionati? Può crescere un Paese dove grazie a tutto ciò la propensione al consumo, che caro Di Vico dipende più dalla testa che dal portafoglio, è azzerata da una politica fiscale rozza, antieconomica e medioevale? La risposta non può che essere negativa, soprattutto se aggiungiamo la gravità di una burocrazia soffocante, costosissima, inutile e dannosa, la presenza dello Stato ovunque che scoraggia ogni intenzione di iniziativa privata, la mancanza di uno stato di diritto a favore dei consumatori e dei contribuenti. Come se non bastasse, caro Di Vico, in Italia la giustizia è più un’idea che un fatto; lenta, complicata, incomprensibile e spesso malata, una giustizia talvolta ingiusta che sembra essere utile più a chi sbaglia che a chi ha ragione. Dulcis in fundo, può crescere un Paese che porta sulle spalle un debito non solo ciclopico, ma che come l’universo di Hubble si espande in continuazione e che, follia delle follie, si è generato non per sviluppare, attrezzare e modernizzare il Paese, come diceva il grande Keynes, ma per sperperare, finanziare illegalmente la politica, creare un welfare da socialismo reale e viziare il consenso elettorale?

Insomma, l’elenco delle ragioni per cui l’Italia anche in presenza di fattori esogeni molto stimolanti, quali: euro basso e prezzo del petrolio basso, non cresce e non potrebbe farlo come sarebbe necessario, è lungo e ovvio. Da Monti in giù con la scusa del default, la più grande balla del secolo (figuriamoci che si sta tentando di tutto pur di non mollare la Grecia, pensate se fosse stata l’Italia). Il default presunto è servito da scusa per cacciare Silvio Berlusconi e mettere Mario Monti, col risultato di impoverire persone e aziende a favore di una Germania onnipotente.

Per crescere l’Italia va non riformata ma rivoluzionata secondo una opzione liberale, che il cattocomunismo di sempre ha impedito da decenni. Servirebbe la pace fiscale, lo Stato minimo, l’abolizione degli statuti speciali, la chiusura o vendita di migliaia di aziende pubbliche nate solo per dare stipendi e produrre malaffare, la flat tax e un negozio giuridico del lavoro nuovo di zecca (altro che Jobs act!); servirebbe la sussidiarietà e soprattutto una dose industriale di onestà della classe dirigente. Servirebbe, infine, un sistema bancario che sostenesse lo sviluppo piuttosto che attaccarsi alla vicinanza della politica per essere salvato dai mille ed osceni impicci combinati.

Senza coraggio e buon senso non si va da nessuna parte e lo si vede, la gente è imbestialita con l’amministrazione, con la politica, con l’Europa che vediamo; insomma comincia a risvegliarsi dal torpore e dalla paura che hanno inculcato anni e anni di chiacchiere, tasse, imbrogli. Questo risveglio va capito e interpretato dalla politica, ma se così non fosse nulla sarebbe comunque perduto per sempre, perché se il successo non può essere eterno anche il fallimento non può essere definitivo e la storia economica, a partire proprio dalla Germania, lo insegna eccome.


di Elide Rossi e Alfredo Mosca