L’inutilità della Bindi

martedì 2 giugno 2015


Non si tratta di sinistra o di destra, di centrosinistra o di centrodestra, di politici corrotti o di politici onesti, di politici capaci o di politici incapaci. Si tratta di persone, di singoli che non possono rappresentare alcuno, neppure loro stessi. Sono soggetti che non hanno passato, presente e futuro. Sono nati per consumare e non produrre, nati in assenza di discernimento; nati e basta, che dovrebbero restare in eterno nell’anonimato e lasciarli vivere per amor di patria.

Possono essere usati solo quale esempio per spiegare agli alunni delle elementari cosa significa il numero zero, vale a dire un non-numero, il nulla assoluto. Questa è la fotografia di Rosy Bindi, un nome una garanzia per capire il non valore del nulla, lo zero appunto. Non ha alcuna importanza cosa ha fatto nella vita, quale carica ha ricoperto, in quale partito, movimento, aggregazione ha militato, quali danni ha causato, quali invettive ha lanciato ora a quello ora a questo, quali interviste ha rilasciato a qualche prezzolato operatore della comunicazione. Ogni agire politico corretto o scorretto, giusto o sbagliato, per il bene di questo o quel partito, movimento, aggregato, ha uno scopo, un fine, anche cinico (come dice Machiavelli), che tuttavia è scritto nella genetica della azione politica, sindacale, movimentista e, comunque, attiene agli interessi di gruppi e categorie che l’autore dell’azione ascrive a tutti quelli con i quali condivide la difesa di certe prerogative utili od anche inutili alla comunità piccola o grande di appartenenza.

La Bindi non appartiene ad alcun gruppo, non rappresenta alcuno, pur se ha acquisito un titolo astrattamente idoneo, ancorché invalido o proveniente a non domino. È un aborto politico che va estirpato dal luogo delle Istituzioni. Non rappresenta alcuna forza politica, sindacale, imprenditoriale; è effettivamente un pericolo per la democrazia, non certo come amava noiosamente accusare il Cavaliere in tempi passati. Quello che ha fatto non lo ripetiamo, non ha precedenti nella storia politica italiana dai tempi degli antichi romani. È nata la morte. Ci fa vergognare tutti, indipendentemente dai legittimi orientamenti di ognuno. Non si tratta di difendere o demonizzare una parte o l’altra. Il nulla, l’egoismo personale, i dispettucci infantili, le vendette condominiali non possono albergare nei luoghi deputati alla rappresentanza del popolo. Il soggetto, il cognome e il nome va cassato dall’elenco di coloro che sono stati eletti.

Personalmente l’avevo previsto venti anni fa, quando veniva applaudita da una folla entusiasta per rinnovare la vecchia classe dirigente italiana con gli onesti, che hanno dimostrato una grande disonestà intellettuale. È inelegante citarsi, ma una deroga mi sembra opportuna dopo che sono stati emessi suoni, parole al vento, elenchi dannosi e pericolosi. Riporto un mio editoriale del 1994 uscito su una piccola rivista (“Punto azzurro”), in qualità di direttore responsabile e intitolato “Capire l’oggi, scegliere il domani”. Ascoltiamo i tamburi della propaganda, vecchi e nuovi predicatori presentano ad intermittenza l’elenco dei buoni propositi, la riformulazione di sistemi e di dottrine. Con ottusa e monotona uniformità si continuano ad occupare dell’ovvio. Echeggiano le parole magiche del cambiamento, del rinnovamento, insomma del cosiddetto “nuovo”. Subiamo l’ascolto di consigli per gli acquisti: la vecchia Repubblica, una nuova Repubblica, la gente, il Paese, metodi vecchi, metodi nuovi. Pressati dalla tirannia degli opinionisti, detentori del pressappoco, aneliamo un incontro con le virtù dell’esattezza in attesa che muti l’acustica della dialettica politica. Si spera che calata la temperatura della improduttiva polemica, dei gesti rabbiosi di protesta, si possa discutere di politica, di scelte, di decisioni. Non è più il tempo di praticare la politica come religione delle ortodossie o come ascendenze dogmatiche. È mutata la composizione di classe, è definitivamente scomparsa la polarizzazione ideologica. Il vocabolario rivoluzionario ha lasciato il posto a quello dell’economia, del pragmatismo, a quello più concreto della difesa degli interessi, della salvaguardia della qualità della vita. La caduta verticale delle ideologie genera nella politica il compito di portare a soluzione i problemi. Cresce, appunto, la consapevolezza che ciò che in effetti conta è il problema da affrontare con tutti gli strumenti possibili per portarlo a soluzione. Questo innesta un processo di specializzazione crescente che dà luogo ad una singolare esigenza di interdisciplinarità che comporta un continuo ricondizionamento della cultura specifica ai termini reali del problema. Come ha detto con efficacia Popper: “Noi non siamo studiosi di certe discipline, bensì di problemi”. E i problemi possono passare attraverso i confini di qualsiasi materia o disciplina. A conclusioni non diverse è giunto un economista come Gunnar Myrdal, il quale presenta insofferenza verso le tradizionali demarcazioni che separano rigidamente tra loro le discipline della scienza sociale: “non esistono problemi economici, sociologici, psicologici. Di fronte ai problemi è necessario fare ricorso a tutti gli strumenti possibili; è necessario evitare il ricorso al dilettantismo. Per portare a soluzione il problema occorre decidere e per decidere bisogna che qualcuno decida”.


di Carlo Priolo