martedì 2 giugno 2015
C’è una prospettiva che credo determini sconcerto e panico negli ambienti del “terzo livello” mafioso, da identificare con l’imponente struttura di sfruttamento economico parassitario dell’Antimafia. Molti sono convinti che essa sia costituita dalle crepe che si profilano nell’ambiente stesso della magistratura oltranzista (quella, per intenderci, che vuole processare lo Stato per il “tentativo di subire” le minacce ed i ricatti dalla mafia) e per la “scoperta” (assai parziale ed episodica, finora) dell’affarismo che si cela sotto l’usbergo dell’Antimafia.
Tutto ciò, indubbiamente turba i sonni, finora tranquillissimi, della congrega che oggi ha in mano la Sicilia. Ma il vero incubo per questi gentiluomini è rappresentato dall’affievolimento, che potrebbe essere il sintomo di una fase mortale, del fenomeno mafioso. Se, come ogni cittadino dabbene auspica, la mafia dovesse veramente tirare l’ultimo respiro (il che, certamente, non è facile che avvenga, ma neppure impossibile) il “terzo livello” della mafia stessa, cioè l’antimafia, finirebbe con l’esserne travolta. Grida di allarme che si levano contro le previsione ottimistiche, gli ammonimenti a “non abbassare la guardia” (espressione sportivo-militaresca particolarmente amata dai professionisti dell’antimafia e da sempre demonizzata come sospetta espressione di un subdolo “concorso esterno”) che di recente si sono levate (la mafia non è morta ha sentenziato l’“esperta” Rosy Bindi) sembrano riflettere più un’esigenza di scaramanzia contro un’angosciosa eventualità, che un ragionevole ed opportuno invito alla prudenza.
Personalmente sono convinto, non essendo certamente (Dio ne guardi!) un mafiologo, che le preoccupazioni della gente del “terzo livello” e del più ampio ambiente dei “professionisti dell’antimafia” siano quanto meno eccessive. La fine della mafia, di quella che è stata in passato e di quella che c’è ed opera a tutt’oggi, non sarà improvvisa (anche se, magari, più rapida del prevedibile) ma, soprattutto, non avverrà senza lasciare al suo posto forme diverse di criminalità organizzata (non solo il “terzo livello”) quali oramai esistono in tutto il mondo (compreso quello ex comunista, in cui esse sono, semmai, più simili che altrove alle nostre mafie e camorre tradizionali). Ciò consentirà la sopravvivenza di fenomeni e strutture venutesi a creare per combattere le mafie tradizionali, strutture che non avranno comunque difficoltà ad adeguarsi al “nuovo corso” ed anche a garantire, non solo a chiacchiere, la continuità tra la vecchia (ora attuale) criminalità organizzata e quelle nuove (cioè future).
Non c’è bisogno di essere muniti della sfera di cristallo, oppure di doversi qualificare “socio-criminal-mafiologhi” di alto livello, oppure semplicemente testardi pessimisti, per ritenere che il “terzo livello” riuscirà a sfoderare capacità di una politica gattopardesca (accettando che tutto cambi purché tutto resti come prima) per difendere ancora per chi sa quanto tempo i suoi privilegi. Non sembra del resto che si vada profilando il crearsi di una classe politica capace di controllare e contrastare efficacemente tali maneggi. Ma non guardiamo troppo lontano e soffermiamoci, invece ad osservare e valutare quelle che sono le mosse odierne dell’Antimafia: di quella propriamente identificabile col “terzo livello” e di quella, più ampia, costituita da quanti ritengono di non doversi “tirare indietro” di fronte all’esigenza obiettiva di combattere la criminalità mafiosa così come essa è oggi e così come si crede che sia e sia destinata ad essere o dover essere combattuta.
Ma vediamo oggi come ci si appresta a condurre la lotta contro la mafia nella fase che potrebbe anche essere conclusiva di essa. Abbiamo già detto che tale eventualità, che alcuni indizi lascerebbero comprendere non essere al di là del raggiungibile, sembra sconcertare piuttosto che rallegrare, spingendolo ad agire con ogni più efficace e misurato accorgimento, tutto l’apparato che è stato creato per il contrasto a quelle forme di criminalità organizzata. Che non sanno far altro che raccomandare (minacciosamente) di “non abbassare la guardia”. Intanto nessuno si preoccupa di fare un inventario obiettivo sui “costi indiretti” di questi decenni di oltranzismo antimafioso. Si può dire che tutto l’apparato giudiziario ha finito per essere coinvolto in una emarginazione del garantismo e in una concezione “guerresca” della giustizia penale, per la quale gli scrupoli per il sacrifico di innocenti è una forma di deleteria debolezza. Principi fondamentali del diritto dei popoli civili e liberi, frutto di secoli di elaborazioni scientifiche e di esperienze applicative pratiche sono stati travolti.
Paradossalmente proprio il “principio di legalità”, termine usato oramai per indicare un “atteggiamento”, un parteggiare “stando dalla parte buona”, contro la mafia e contro ogni “lassismo”, è stato, per ciò che invece significa veramente nell’architettura del diritto penale, maltrattato e dimenticato. “Nullum crimen, nulla poenia sine praevia lege penali”, assioma che implica che per “previa lege penali” sia stabilita una fattispecie chiara e non elastica e ribaltabile (sentenza della Corte Costituzionale del 1989 sul reato di plagio!) non è più un principio realmente osservato e rispettato. La stessa formulazione del reato di “associazione di tipo mafioso” è definita come un’accozzaglia di proposizione di incerto e contraddittorio significato (416 c.p.). Dove, poi, non è arrivato il velleitarismo frettoloso del legislatore è arrivata la cosiddetta giurisprudenza. Basti pensare all’oramai tristemente famoso “concorso esterno”. Con le “misure di prevenzione” (cosiddette) dirette a colpire gli “indiziati” di mafiosità (quindi, esplicitamente, non i mafiosi tali riconosciuti ed accertati con prove certe) sconvolgendo, oltre i princìpi giuridici, la certezza delle situazioni patrimoniali e, con esse, il credito e le sue garanzie.
È stato inoltre sconvolto il diritto pubblico, con la truffaldina elusione del principio costituzionale della generalità del suffragio elettorale attivo e passivo, con la caricaturale elaborazione della limitazione della “candidabilità”. L’intera scala delle pene e della loro graduazione proporzionata alla gravità del reato è stata manomessa e sconvolta sconciamente con la continua lievitazione delle pene per i reati di mafia. Un’ultima modifica tendente ad aggravarle sensibilmente si sta discutendo in Parlamento e personaggi che sono l’espressione della rozzezza e della banalità di questa forsennata “antimafia”, come il noto Lumia (“collegamento” in Sicilia tra gli ambienti di Sicindustria e l’amministrazione Crocetta) garantiscono che questa sciagurata innovazione è la prova che “non si abbassa la guardia”.
Nessuno sembra porsi il problema della eventuale opportunità di garantire che si rientri nella normalità e, soprattutto nella oculata e non approssimativa applicazione delle pene, che finalmente si esca dalla “militarizzazione” della lotta alla mafia. Sembra invece che ci si affanni a stabilire le ultime disposizioni del “regime di occupazione militare”. Uscire dall’antimafia sarà più lungo e difficile di quanto non sia stato cacciarvisi sconsideratamente negli ultimi lustri del secolo scorso. Ed i segni rimarranno a lungo nel nostro ordinamento giuridico. Nel cuore della nostra civiltà.
(*) Articolo tratto da www.giustiziagiusta.info
di Mauro Mellini (*)