giovedì 21 maggio 2015
La Rai torna a far parlare di sé per via della tanto attesa riforma del “riformatore” Matteo Renzi, che però lascia molte perplessità ed un generale malcontento. Il testo, in discussione a Palazzo Madama, ha prodotto perplessità e spaccature nello stesso Partito democratico. Annunciato alcuni mesi fa in pompa magna come un restyling che avrebbe assicurato alla televisione di servizio pubblico una nuova, inedita indipendenza gestionale del Consiglio di amministrazione, da sempre lottizzato dalle diverse fazioni politiche in campo, a conti fatti sembra soltanto un intervento volto a mostrare la volontà di un cambiamento che in verità nessuno ha intenzione di mettere in atto.
Richiamare, come da sempre accade anche nell’italica convegnistica di settore, il modello Bbc è pura retorica, che peraltro non ha alcuna reale concreta chance di attuazione. Il modello italiano è più facilmente assimilabile a quello francese di France Telévisions, che non a quello del psb britannico, nato e “cresciuto” in un contesto e con un’impostazione da sempre radicalmente differente. La scarsa portata della riforma questa volta deve essere tanto evidente che persino la presidente della Rai, Anna Maria Tarantola, abitualmente pacata ed ottimista, ha avanzato un pesante affondo nei confronti della rivoluzione della tivù pubblica targata Renzi.
Se da una parte l’ex dirigente di Banca d’Italia condivide l’introduzione di un amministratore delegato, dall’altra parte evidenzia il deficit rispetto al tema della mission aziendale, così come mette chiaramente in luce quanto il sistema di nomine ideato dal premier possa scivolare in procedure poco trasparenti. Nel ddl, ha sostenuto inoltre, nulla viene detto a riguardo di conflitti di interesse e incompatibilità di incarico dei vertici aziendali che, se provenienti dalla concorrenza, dovrebbero avere un periodo di “quarantena”. Molte le perplessità e le critiche sui poteri della Commissione di vigilanza, il cui ruolo non appare particolarmente chiaro.
Non ultimo il problema del canone. Al di là dell’evasione – che si aggira intorno al 30 per cento e viene giudicata una tassa iniqua da buona parte degli italiani – pensare al canone come ad una imposta da pagare per il possesso di un televisore, nel 2015, appare quantomeno anacronistico. Il periodo della fruizione televisiva attraverso il televisore a tubo catodico nel salone di casa è stata ampiamente sorpassata e nell’Era del multidevice, multiscreen, in cui i contenuti possono essere fruiti in qualsiasi momento e tramite qualsiasi apparecchio, il canone dovrebbe avere una impostazione alquanto differente. Dello stesso avviso anche il direttore generale, Luigi Gubitosi che, in audizione al Senato, ha dichiarato: “Sicuramente la legge attuale sul canone che parla di televisore è superata dall’esistenza di molti device”.
Quel che appare evidente è che neanche questa volta si arriverà ad una tivù libera dalla politica e aperta alla società civile, come molti auspicavano. La riforma (che poco riforma) procede in ogni caso con un andamento particolarmente mediterraneo ed è quasi certo che le nomine dei nuovi vertici slitteranno a dopo l’estate. Il rischio è quello di un affondo da parte del Senato, ma ancor più rischioso appare ritrovarsi a fare le nuove nomine con la legge Gasparri. Dalla padella alla brace. E di certo i partiti, sia con il sistema attuale che con quello caldeggiato dalla “riforma”, restano ben centrali. Un altro italico esempio in cui si finge di voler cambiare tutto per lasciare sostanzialmente lo status quo, ed i relativi equilibri di potere, invariati.
di Elena D’Alessandri