venerdì 24 aprile 2015
Il mondo degli appalti ed il suo inquieto diritto fanno sempre notizia. Il 7 aprile scorso è stata presentata, in commissione Lavori pubblici del Senato, la relazione di accompagnamento alla legge delega del senatore Stefano Esposito (Pd), con l’obiettivo di definire con più precisione i criteri di delega affinché, nell’esercizio della stessa, il Governo non scivoli in inutili superfetazioni e vada diritto al cuore del problema. Ed il problema, in termini giuridici, è ben più complesso di quanto si possa immaginare.
Questo nuovo codice appalti si pone giusto al centro di un crocevia, in cui convergono le nuove direttive appalti (23, 24 e 25 del 2014) e le esigenze storiche di rinnovamento. Non occorre ricordare che intorno a questa materia gravitano una serie di interessi che non si arrestano ai soli aspetti squisitamente giuridico/economici, bensì strettamente connessi al controllo dei fatti corruttivi e di cronaca che affliggono le vite degli italiani (Expo, Mafia Capitale con la sua “terra di mezzo”, i disastri dei crolli dei ponti e dei soffitti di scuole pubbliche...). Il buon funzionamento delle regole che governano la materia dell’affidamento, in generale, di appalti pubblici, ha delle ovvie ricadute sulla efficienza dei servizi e delle opere pubbliche, ma diventa anche la cartina di tornasole per ciò che concerne la qualità ed il buon funzionamento della macchina pubblica. In altri termini, più accessibili ai non addetti ai lavori, la procedura di affidamento si può così sintetizzare: indizione della gara di appalto, scelta dell’appaltatore, esecuzione dei lavori e collaudo. Cosa manca oggi e cosa auspichiamo ci sia domani?
Il nostro codice degli appalti ha all’attivo un numero esorbitante di articoli (650) e vanta una serie di interventi legislativi fiume. Nonostante la maniacale attenzione del legislatore alla materia, con la predisposizione di un procedimento di gara puntuale e scandito in tutte le sue fasi, il risultato spesso è un’opera mal riuscita o un servizio non effettuato, con costi raddoppiati o triplicati. La patologia è tutta nell’affollamento normativo che, di fatto, ha condotto ad un procedimento a colorazione kafkiana, dei criteri di aggiudicazione obsoleti e, alla luce dell’esperienza, inefficienti (basti pensare alla offerta con massimo ribasso) ed una mole di contenzioso che ingolfa tutto il sistema di giustizia amministrativa. Tra le cause di questa patologia (non ultima per importanza) è la matrice corruttiva che si annida tra le tessere di questo enorme mosaico legislativo.
Cosa ci chiede l’Europa con le nuove direttive? Sicuramente emerge la necessità di imporre la tanto anelata “chiarezza e semplicità” delle leggi. Soprattutto due le linee guida imposte: semplificazione e flessibilità, che si sostanziano nella modernizzazione delle procedure, attraverso la promozione ed il potenziamento delle comunicazioni dei cosiddetti appalti elettronici e la lotta alle prassi commerciali scorrette; il tutto con una maggiore attenzione alla tematica ambientale e del lavoro.
La succitata relazione, tuttavia, meglio declina questi princìpi, puntando su quelle che sono le peculiarità del regime tutto italiano. Per semplificazione si intende una drastica riduzione degli articoli (da 650 a 250), la redazione delle “pagelle” reputazionali delle imprese e delle stazioni appaltanti; limiti più stringenti per gli affidamenti in house e per gli appalti intergrati. Ma l’aspetto più innovativo delle direttive in esame, è il significativo ampliamento dei poteri dell’Anac. L’Autorità anticorruzione si staglia, su tutta la materia, come il direttore sull’orchestra. Compito ingrato, quello di trasformare in sinfonia una accozzaglia di suoni! Solo perché siamo in Italia (un Paese in cui, per non sbagliare, considerata la conclamata perdita di controllo della legalità, si parte dal... “siamo tutti colpevoli”), il nuovo codice avrà (bisogno di... ndr) un controllore di ferro: così all’Anac è affidato il compito di redigere le pagelle, la selezione dei criteri di riduzione delle stazioni appaltanti e la gestione di una fase precontenziosa con un parere obbligatorio. In una parola, una “Super Authority” con uno straordinario accentramento di poteri, nella speranza che una sola autorità riesca laddove, un numero imprecisato di soggetti pubblici, non è riuscito.
Allora cosa ci aspettiamo che cambi? Che un mercato senza certezze e che viaggia su di un terreno “sdrucciolevole” diventi solido e trasparente. Ma soprattutto, da cittadini, ci auguriamo che tutto questo cambiamento porti al risultato più ovvio: un recupero della qualità delle opere pubbliche e della loro efficienza. Una efficienza, in fondo, banale tipica di chi acquista qualcosa: valutare le offerte, fare il raffronto prezzo/qualità, scegliere sulla base del proprio portafoglio ed infine collaudare il prodotto. Insomma questa semplice parola racchiude un mondo... il mondo che non c’è, che non sappiamo se mai ci sarà, fintanto che non cambieranno accanto e, al di sopra dei mutamenti legislativi, le coscienze degli uomini, che operano in questi settori e che dovrebbero avere, come codice naturale, il perseguimento dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa ad ogni costo, per consentire ai nostri figli di avere dal proprio Paese una reale opportunità di crescita e una speranza di vita.
di Stefano Crisci