martedì 14 aprile 2015
Sui sondaggi pre-elettorali vi sono pareri molto diversi che vanno dalla più cieca fiducia al più inguaribile scetticismo. Il secondo atteggiamento ha però buone ragioni per sussistere e forse prevalere poiché, come l’esperienza insegna, l’affidabilità dei poll si fonda su un principio metodologico tutt’altro che ovvio. Si tratta del presupposto, tacitamente stabilito sin dagli inizi del sondaggismo, negli Usa fra le due guerre, secondo cui ciò che la gente afferma oggi varrà anche domani o fra un mese. Ovviamente vi sono argomenti sui quali, per la loro stessa natura, il presupposto in questione può essere sufficientemente valido. Di fronte ad una domanda del tipo “lei crede nell’esistenza di Dio?” delle due l’una: o gli intervistati dicono la verità oppure no.
Ma, se la dicono, è assai improbabile, cioè rarissimo, che fra dieci giorni la configurazione statistica si riveli capovolta. Al contrario, per quanto riguarda le intenzioni di voto o la valutazione dei leader politici, i rilevamenti sono intrinsecamente statici: rilevano, se va bene, una situazione che, in realtà, è sempre in movimento. Anche la loro ripetizione a distanza, poniamo, di una settimana, non risolve il problema perché le differenze, in quanto tali, diranno ben poco, se non a rischio, su ciò che accadrà fra altri sette giorni. Il punto è che i risultati dei sondaggi non vengono interpretati se non attraverso il loro valore numerico ma senza il sostegno di alcuna teoria.
Tuttavia, sul piano scientifico, è proprio così che si fa perché i dati, per conto loro, non possono dire nulla mentre una teoria non solo li fa parlare ma indica con chiarezza dove e in che modo cercarli. Non a caso, nel mondo scientifico, si parla degli strumenti di ricerca come theory driven perché cercare senza ipotesi non ha alcun senso. Il guaio è che poche teorie sociologiche o politologiche possono considerarsi adeguate allo scopo e, anche per questo, credo che ben pochi committenti accetterebbero di pagare per avere una previsione basata su dati statistici interpretati teoricamente. Eppure in molti casi sarebbe possibile, quanto meno, evitare i più grossi fallimenti previsionali.
Il caso più recente è quello delle recenti elezioni francesi nelle quali, secondo tutti sondaggi, il partito di Marine Le Pen stava per divenire il primo partito del Paese. Ma le tendenze elettorali europee effettive degli ultimi 50 anni mostrano con chiarezza che, con rarissime eccezioni, i partiti delle ali estreme, di destra o sinistra, servono agli elettori per avvertire e schiaffeggiare il Governo di turno ma senza andare fino in fondo, cioè senza augurarsi davvero che un partito “duramente contro” - perché è così che, fondamentalmente, si presentano i partiti estremisti siano essi di destra o di sinistra - assuma il potere e leghi a sé i destini della nazione. Una teoria sui moderati che si arrabbiano, minacciano ma, alla fine, rinunciano ad un’azione che in fondo sarebbe per loro stessi autolesionista, soprattutto pensando alla storia del Novecento, avrebbe evitato l’insuccesso previsionale dei sondaggisti francesi.
Il successo reale di un partito estremista potrebbe però avvenire se la società interessata dalle elezioni si trovasse in una crisi devastante e sull’orlo del default economico, come è accaduto poche settimane fa per la Grecia, ma anche di questo una buona teoria dovrebbe tenere conto per mezzo di modelli nei quali la previsione sia correlata a precise misure della gravità di una crisi socio-economica. Il fatto è che, durante una crisi anche grave ma non gravissima, la pubblicazione delle tendenze elettorali rappresentano un caso classico di quelle che Merton chiamava la profezia che si autoadempie e la profezia che si autodistrugge.
Gli elettori, in altre parole, assumendo seriamente la possibilità che un certo partito o un certo candidato vincano, e giudicando la cosa positivamente, possono salire sul carro del vincitore (l’effetto bandwagon della politologia americana) facendolo vincere ancora più massiciamente, oppure, giudicando la cosa negativamente, possono abbandonare i propri atteggiamenti attuali e premiare un partito o un candidato dato per perdente distruggendo dunque la previsione (l’effetto underdog). Ciò è avvenuto, per esempio, nella contesa elettorale fra Kennedy e Nixon nel 1960. In definitiva, fondare le previsioni elettorali su meri rilevamenti statici o su tendenze, magari statisticamente corrette ma prive di interpretazione, serve a poco.
È come se le previsioni meteorologiche si fondassero unicamente su grandi quantità di dati ma senza alcun modello teorico che li inquadri e permetta loro di esprimere andamenti significativi. Scoprire le “leggi” di trasformazione e di evoluzione dei dati pre-elettorali in relazione ad altri dati sociologici è, credo, uno dei compiti più impegnativi ma anche più attraenti della sociologia politica.
di Massimo Negrotti