sabato 14 marzo 2015
Le mosse della Bce non bastano per uscire dalla crisi. “E’ come uno sgabello con una gamba sola, ce ne vorrebbero almeno altre due, sennò in 3 anni può esplodere un’altra crisi”. Luca Visentini è il candidato designato alla poltrona di segretario generale della Confederazione europea dei sindacati.
Se il congresso di Parigi a fine settembre gli darà via libera, un italiano tornerà alla guida del sindacato europeo, 24 anni dopo Emilio Gabaglio, che fu numero 1 della Ces dal 1991 al 2003. Friulano, 46 anni, area Uil, Visentini andrà ad aumentare il numero degli italiani a Bruxelles alla guida delle parti sociali Ue, dopo Emma Marcegaglia, presidente di Business Europe (la Confindustria europea) e Valeria Ronzitti, segretario generale del Ceep (imprese e datori che forniscono servizi pubblici).
Il Quantitative Easing di Mario Draghi è certamente un’operazione importante, rileva Visentini, “ma andava fatta due anni fa”. Un ritardo che “potrebbe essere fatale” se l’iniezione di liquidità decisa dall’Eurotower non sarà accompagnata da altre due misure fondamentali: “Politiche di investimento pubblico e rilancio della domanda interna con l’aumento dei salari, altrimenti rischiamo che si ricrei la stessa bolla speculativa che ha prodotto la crisi”. La cui gestione all’insegna esclusiva dell’austerità come mantra imprescindibile per la remissione dei peccati del debito, secondo il segretario generale della Ces in pectore, ha un mandante solo e parecchi esecutori.
“L’austerità è stato un errore ideologico del pensiero neoliberista, vero pensiero unico degli ultimi 5-6 anni, che tuttavia ha nascosto degli interessi, con in Paesi in surplus che hanno continuato ad arricchirsi alle spalle di quelli in debito, esportando sempre di più e importando sempre di meno. Non puoi però continuare ad arricchirti all’infinito approfittando di chi s’impoverisce: tu esporti e continui a comprare il loro debito, ma c’è un limite oltre il quale non si può andare. Un boomerang, in termini di recessione. E infatti la Germania ora deve fare i conti con due problemi: Il primo, è che il 70 per cento delle sue esportazioni si basa sui Paesi europei, e dunque non è che possono continuare a impoverirli all’infinito, sennò poi nessuno gli compra più nulla. Risultato: negli ultimi 10-15 anni hanno depresso la loro domanda interna.
Secondo problema: la destrutturazione e la distruzione dei sistemi contrattuali collettivi settoriali, il decentramento della contrattazione aziendale, i mini job a 40 ore senza garanzie hanno generato 7-8 milioni di lavoratori poveri che vivono di sussidi pubblici, e che alterano le statistiche sui loro tassi di occupazione”. Ma anche il sindacato non se la passa troppo bene, riconosce Visentini. “Le organizzazioni di alcuni Paesi, come i metalmeccanici tedeschi, hanno delle corresponsabilità sulla frammentazione del mercato del lavoro. E’ la Germania che nel 2003 ha inaugurato questa politica dei defensive agreements, degli opening clauses e delle deroghe.
Non è stata un’invenzione italiana, spagnola o francese, sono loro che l’hanno concepita, e oggi il 54 per cento delle imprese industriali tedesche non aderisce alla confindustria e non applica il contratto collettivo nazionale”. La sfida per le organizzazioni del lavoro è ambiziosa: ritrovare la membership e rilanciare della rappresentanza per tutelare i salari e la contrattazione, a livello nazionale, partecipare attivamente alla governance economica, a livello europeo. “Ma dobbiamo cambiare il nostro linguaggio – ammette Visentini - essere più chiari, più espliciti, più vicini alle esigenze dei lavoratori, un po’ più aggressivi se necessario e anche rinnovare il parco macchine, con più donne, più giovani, più sindacalisti che vengano dal territorio e dai settori, da esperienze reali sul campo”.
di Pierpaolo Arzilla