I segni del dirigismo

giovedì 19 febbraio 2015


Le democrazie contemporanee vivono di stereotipi e segni linguistici generalizzati, spesso del tutto indefiniti ma rispondenti a precisi interessi quasi sempre di ordine ideologico. Così, vi sono termini che divengono rapidamente stelle polari, che i raffinati definirebbero del senso comune ‘corretto’. Una di queste è sicuramente il termine ‘sostenibilità’, il quale, assieme ad uno dei suoi concetti di riferimento, il cosiddetto ‘impatto ambientale’, costituisce un metro di giudizio immancabile in ogni progetto di innovazione, soprattutto in ambito industriale, che coinvolga, cosa del resto ovvia, risorse naturali. Ambedue i termini nascono alla fine degli anni sessanta e, inutile dirlo, risentono ampiamente delle geniali intuizioni dei teorici del ‘sessantotto’, mossi da grandi ideali pedagogici nei riguardi di una umanità, soprattutto se residente in sistemi capitalistici, del tutto ignara dei disastri che la nuova esplosione industriale avrebbe comportato. Disastri che, secondo loro, non hanno più solo a che fare con lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma con lo sfruttamento della natura, dell’ambiente e delle sue risorse.

Fallita la previsione marxiana, secondo la quale avremmo dovuto assistere ad una rivoluzione originata dalla ribellione delle classi sfruttate, i nuovi, si fa per dire, ‘antagonisti’ davano inizio ad una lunga marcia contro i risvolti negativi per la specie umana, animale e vegetale, della bramosia capitalistica. La tecnologia naturalmente era, ed è tuttora, al centro delle accuse di insensibilità ambientale. Ricordo, negli anni ottanta, il fervore con cui un collega di una università olandese, rosso in volto e nelle idee, si scagliava contro le grandi multinazionali della meccanica e dell’elettronica, colpevoli di depredare la natura di tutti gli elementi chimici e fisici necessari a quelle industrie. La cosa si è poi istituzionalizzata attraverso la messa in piedi di commissioni che, in ogni Paese del mondo, decretano spesso il pollice verso nei riguardi di iniziative imprenditoriali private o pubbliche – basti pensare alle grandi infrastrutture – valutate come rischiose o persino decisamente pericolose. In certo qual modo il Principio di Precauzione, varato dalla solerte CEE una decina di anni fa, è il monumento a tutto questo.

Il risultato più evidente è che, mentre la Cina, l’India e altri Paesi da poco approdati al capitalismo di fatto, si sviluppano vorticosamente senza badare troppo alla sostenibilità, i Paesi occidentali, Italia in testa, si rallegrano quando riescono ad aumentare il proprio PIL di qualche decimale, sulla base, tuttavia, di un malessere collettivo oggi più che mai evidente e crescente. Il fatto è che la sostenibilità, e tutto ciò che questa implica, non è altro che uno dei tanti segni subdoli che il dirigismo socialista produce e diffonde facendo leva e, anzi, aizzando paure e disagi collettivi. Intendiamoci. Anche un cretino capisce che se l’amianto si è rivelato, grazie alla libera ricerca scientifica, sicuramente dannoso per l’uomo, sarà bene evitarne l’impiego.

Altrettanto vale per ogni altra forma di degenerazione, appurata e riconosciuta, provocata dai più diversi comportamenti che l’homo faber ha escogitato nei secoli: troppe automobili producono gas velenosi in eccesso; costruire enormi quartieri ‘alveare’, magari senza verde, genera danni di tipo prossemico e induce devianza sociale; insistere con la monocultura senza dar riposo e varietà alla terra può rivelarsi un errore costoso; ecc. Ma che ogni nuova installazione industriale, ogni ponte o ogni tunnel debba essere sottoposto ad analisi lunghe e certosine sembra davvero, quanto meno, da un lato sciocco e dall’altro certamente ritardante qualsiasi processo della tanto invocata crescita. E poi, chi sono i giudici? Su quale base garantibile emettono il proprio giudizio? In un’epoca nella quale non si fa altro che parlare di complessità, costoro avrebbero davvero in mano la chiave per elaborare vari tipi di cross impact analysis decisivi per decifrare le conseguenze multiple di ogni progetto nel medio e lungo termine? C’è forse in giro qualcuno che sa prevedere il prezzo del petrolio, la disponibilità del metano, il valore del rame, l’acquisizione di nuovi farmaci, le esigenze di scambi e integrazioni industriali in Europa o i nuovi standard elettronici fra, diciamo, due o tre anni?

Si faccia avanti e se ne assuma la responsabilità si pensi alla polemica sulla TAV: nel mondo si costruiscono tunnel, e ponti, da sempre e quasi sempre si sono rivelati utili, come le autostrade, volute, in Italia, dagli Agnelli (secondo le miopi sinistre) per poi essere usate vantaggiosamente da milioni e milioni di italiani e stranieri. Quale giudizio di sostenibilità avrebbero avuto le autostrade se qualche gruppo di soloni riuniti in qualche VIA (Valutazione di Impatto Ambientale) avesse avuto l’incarico di valutarle nei primi anni sessanta? Avrebbero forse votato negativamente per salvaguardare la beata e ricca vita bucolica delle campagne italiane, miseria inclusa? Infine c’è la questione scientifica. Cosa significa ‘sostenibilità’ sul piano analitico?

Sono forse sostenibili i fenomeni di massa, come le spiagge e i mari italiani su cui milioni di esseri umani insistono per l’abbronzatura o per fare il bagno, immettendo nell’ambiente litorale e nell’acqua milioni di litri di liquidi organici, aggredendo l’ambiente con la propria temperatura corporea, il proprio sudore o i propri rifiuti? E’ sostenibile una montagna in cui migliaia di ‘amanti dello sport’ si fanno trasportare da potenti meccanismi su cime innevate per poi scendere gioiosamente con due pezzi di legno sui piedi, inebriati come fanciulli dalla ‘velocità’? Per poi, magari, parlare, scandalizzati, di ambiente e multinazionali attorno ad un punch appena tornati in albergo? Perché gli ambientalisti, e i politici che li cocccolano, non protestano anche contro queste e altre ‘aggressioni all’ambiente’ ? E quando giornalisti dalla bocca sempre aperta e uomini ‘informati’ esaltano le proprietà sostenibili, che so, delle automobili elettriche, possono dimostrare che i processi produttivi delle batterie non costano nulla, alla natura e a chi le lavora?

O forse è sostenibile una crociera su navi falansterio da migliaia di tonnellate, con tanto di ‘animatori’ per non annoiarsi, che solcano i mari di mezzo mondo ospitando migliaia di persone che immettono di tutto nell’acqua? Qualche tempo fa, un ingegnere aeronautico, dopo un convegno, mi faceva presente che le migliaia di aerei che viaggiano giorno e notte sui cieli dei cinque continenti qualcosa di male fanno. Probabilmente aveva ragione. Ma, dopotutto, a bordo non vi sono solo comitive di turisti desiderosi di ‘conoscere altre culture’ per poi tornare a casa, ma anche uomini che cercano di promuovere le proprie aziende, i propri progetti o le proprie idee muovendosi nel mondo.

La lezione da trarre è una sola: sulla Terra non sono date soluzioni garantite gratuite, generatrici di felicità e, quel che più conta, senza rischi. L’idea di qualsiasi Super Commissione per il Bene Comune e la Sicurezza è la più drammatica e illusoria utopia di ogni tempo. E, insieme, la più potente arma fra le mani di chi ha la presunzione di sapere cosa l’uomo deve fare e cosa non deve fare.


di Massimo Negrotti