Tutto cambi purché nulla cambi

martedì 3 febbraio 2015


L'elezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica è evento sicuramente foriero di novità per lo scenario politico italiano: novità in parte prevedibili, in parte ambigue, in parte ancora da scoprire e, forse, immaginare. Si chiariranno via via, dispiegheranno nel tempo i loro effetti. Una conseguenza però subito ci appare sicura, anche se fino a ieri inaspettata e sorprendente. L'arrivo al Quirinale di un esponente di rilievo delle politiche partitocratiche della Prima Repubblica, addirittura di un "esponente di primo piano della Democrazia Cristiana" come scrive la stampa, toglie a Matteo Renzi l'aureola, la fama e le caratteristiche del rottamatore.

L'abile Presidente del Consiglio aveva scalato i gradini del successo facendosi forte della fama di "uomo nuovo" che ascolta le piazze tumultuanti di rancori anticasta e promette di spazzar via ogni residuo e incrostazione del passato, a partire dagli uomini più potenti e carismatici del suo stesso partito. Fino a ieri, pur con qualche smagliatura dovuta alla rinuncia alla rapidità nell'agire e portare a termine i suoi piani (dai soli cento giorni promessi per realizzare la "svolta" è passato all'impegno a restare in sella per una intera legislatura), la favola ha tenuto. Oggi, con il "rottame" Mattarella (senza offesa per la persona, rispettabile anche se autore di una brutta legge elettorale e dichiaramente antiradicale) insediato sul più alto colle della Repubblica, la favola si è dissolta. Nella ovvia differenza di caratura (e di carisma) dei due personaggi, il dopo-Napolitano sarà forse un duplicato: dovessimo (e potessimo) sperare, il meglio che possiamo augurarci è che Mattarella riesca a rifiutare e abbandonare la prassi degli sconfinamenti, dei suggerimenti, delle esternazioni, dell'interventismo, delle "supplenze" e quant'altro ha da tempo stravolto e gonfiato il ruolo del Presidente della Repubblica (nel contempo diminuendolo nei suoi effettivi compiti, doveri e funzionalità).

Oggi, in attesa delle necessarie verifiche e dei primi collaudi, Renzi appare come il rinsavito continuatore dei riti della Prima Repubblica, che così dimostra di essere espressione profonda dei "valori" (o disvalori) più riposti e immutabili del paese, del suo sistema politico. Forse, l'elezione di Mattarella è addirittura il segnale che l'Italia sta tornando sui suoi passi, a ritirarsi nel suo guscio, nel suo isolamento. Renzi ha per qualche tempo sognato, e fatto sognare qualcuno, di essere l'antagonista della Merkel e dell'establishment europeo, mostrando il volto dell'innovatore deciso a infrangere riti e miti del passato. "Rovesceremo l'Italia da cima a fondo". Forse, il leader dinamico ed efficientista cede oggi il posto a un più cauto amministratore, di sé e del contesto in cui è obbligato ad operare. Ha dovuto prendere atto, se non altro, che il sistema politico italiano, anche se sconnesso e non più credibile, resiste al cambiamento, all'innovazione. Per ricompattarlo, Renzi ha scelto l'uomo meno lontano dal suo partito nelle sue storiche espressioni, quelle della stagione del malfamato cattocomunismo. Non si può dire che l'ala conservatrice del Pd abbia vinto, ma certo è riuscita a condizionare il suo segretario, ad assaporare la soddisfazione di un possibile ritorno ai vecchi tempi.

A botta calda, il partito democratico è riuscito ad attribuirsi una buona parte del successo di questa elezione: "Se il Pd ragiona da Pd, cioè da perno politico del sistema come hanno voluto gli elettori, si possono fare delle belle cose". Lo sconfitto è, almeno per il momento, Berlusconi, l'amato e sempre invocato Patto del Nazareno è un po' svalutato ( ma questa sconfitta grava anche su Renzi, che su quell'accordo aveva puntato per divincolarsi, al possibile, dalla stretta delle sue burocrazie interne).

Qualche ulteriore verifica sullo stato delle cose verrà tra pochi giorni, le scadenze non mancano. Ma intanto, la dinamica dei fatti ha dimostrato che non è ancora possible concepire, in Italia, una vera politica dell'alternanza di stampo liberale; perché, semplicemente, il secondo - e necessario - soggetto dell'alternanza non c'è. E qui il discorso potrebbe facilmente tornare all'esperienza radicale. Come è (o dovrebbe essere) noto, da sempre i radicali, almeno quelli di osservanza pannelliana, denunciano il persistere in Italia di un regime di monopartitismo più o meno perfetto, e testardamente cercano di promuovere una maggiore attenzione (politica, non culturale) verso il concetto e la pratica effettuale dell'"alternativa", come forma di cambiamento nel governo del paese non superficiale ma duratura espressione anche di un ribaltamento e rinnovamento "sociale", comunque come concettuale, necessario preludio ad ogni politica dell'"alternanza". Per questo hanno puntato sul tema del diritto e della giustizia come l'unico capace di innescare un processo di reale rovesciamento democratico.

Eppure, in Europa, l'epoca della rottamazione non sembra ancora chiusa. L'elezione di Tsipras a capo del governo greco appare collocata nella scia del mutamento, non solo generazionale, della politica in quanto sistema, metodi ed obiettivi. L'Europa è sempre in attesa di uno scrollone salvifico che la rimetta in moto, col superamento dei veti imposti da una Germania condannata allo stallo dalla stessa sua potenza e sicurezza economica ma anche dal suo nanismo politico, dalla sua incapacità a esercitare una autentica leadership, mestiere che richiede attitudine al dispiegamento di inventiva in settori non prioritariamente economici. Prima o poi assisteremo a un qualche rovesciamento anche profondo. Probabilmente non per opera di Renzi, relegato - al massimo - al ruolo di "spalla" di Tsipras.


di Angiolo Bandinelli