giovedì 23 ottobre 2014
Sono passati 20 anni dalla morte di Murray Newton Rothbard, un ebreo di origine bielorussa che ha smantellato l’impianto classico del pensiero liberale per teorizzare l’anarchia. È lui l’“enfant terrible” del pensiero liberale del Novecento. Per approfondire il personaggio e le sue idee, ancora poco conosciute e pochissimo insegnate in Italia, ieri, a Roma, ne abbiamo parlato assieme a Riccardo Lucarelli (presidente di Rete Liberale), alla professoressa Roberta Adelaide Modugno (storica delle Dottrine Politiche all’Università Roma 3), al giornalista Andrea Mancia (esperto di politica statunitense), a Piero Vernaglione (studioso del pensiero libertario) ed Elvira Cerritelli (Laboratorio Liberale), in un evento organizzato da Rete Liberale (in collaborazione con Laboratorio Liberale), presso la Fondazione Luigi Enaudi.
Nel corso dell’incontro sono stati approfonditi tutti i temi affrontati dallo storico dell’economia e filosofo, dalla sua storia (Roberta Adelaide Modugno), il suo impatto nella teoria economica (Piero Vernaglione), la sua influenza sulla politica americana (Andrea Mancia). E si è parlato brevemente anche della condanna al silenzio riservata a Rothbard, così come a tutti gli altri teorici del mondo liberale: il professor Jan Sawicki, presente in aula, ha scritto un “libro bianco” sulla voluta ignoranza delle nostre accademie.
Se, come diceva il filosofo austriaco Karl Raimund Popper, il liberale è, in fondo, un anarchico che si rende conto di non poter fare a meno dello Stato, Rothbard giungeva alla conclusione opposta: il liberale coerente, non solo si rende conto che può fare a meno dello Stato, ma deve far di tutto per eliminarlo. Il suo orizzonte era l’anarchia. Ma contrariamente ai classici anarchici collettivisti (a partire da Bakunin) che sostenevano la lotta allo Stato a partire da un profondo rinnovamento dell’umanità, a Rothbard andava bene l’uomo così come è adesso, con il suo egoismo, le sue abitudini, tradizioni, idee razionali o irrazionali. Rothbard, infatti, non era un utopista, ma restava sempre ancorato a una visione realista dell’umanità e delle sue istituzioni spontanee.
Come realizzare “realisticamente” l’anarchia, allora? Per Rothbard non era una missione impossibile: si trattava semplicemente di liberare completamente il mercato dallo Stato. La sicurezza? Ci pensino agenzie di protezione private, in concorrenza fra loro. La giustizia? I tribunali possono essere servizi di arbitrato privati. E le strade? Chi dice che lo Stato sia l’unico a costruirle bene? Smantellando tutti i luoghi comuni sulla “indispensabilità” del monopolio tendenziale delle risorse di violenza e dei servizi fondamentali, Rothbard teorizzò la società senza Stato. Non lo fece con esempi astratti, ma con la sua opera di storico dell’economia, dimostrando che ogni intervento statale, nel passato più antico, così come nelle crisi più recenti, non ha fatto altro che peggiorare la condizione dell’uomo.
Non solo. Il suo più grande apporto alla filosofia politica fu la formulazione di un’etica libertaria, fondata sull’assioma di non-aggressione: nessuno può, legittimamente, dare inizio alla violenza. Questo assioma funziona come un rasoio che elimina ogni legittimità possibile allo Stato, che non può arrogarsi il diritto di aggredire i suoi cittadini, nemmeno con le tasse, nemmeno impedendo loro di competere in ogni campo. Di conseguenza, senza possibilità di aggredire, lo Stato cessa di esistere. Perché, inevitabilmente, il monopolio tendenziale della violenza, esercitato su un determinato territorio, è un atto di aggressione: vietando la concorrenza (soprattutto nei settori fondamentali della sicurezza e della giustizia) e finanziandosi con una tassazione coercitiva, lo Stato compie un’aggressione continua contro la società, alla stregua di un violento parassita. Di conseguenza, l’unica società realmente libera, pienamente morale e rispettosa dell’assioma di non aggressione, è l’anarchia.
Questa teoria dà le vertigini e ha costituito un grande grattacapo per tutti i teorici liberali contemporanei, costretti a confrontarsi con la loro stessa coerenza. Un fautore dello Stato minimo, anche il più radicale, si sentirebbe uno statalista incoerente di fronte all’anarchia rothbardiana. E il teorico libertario ha affondato più volte il dito nella piaga dei suoi colleghi: con una sterminata opera polemica ha attaccato Hayek, Friedman, Ayn Rand e tutti gli altri, tentando di scardinare le loro teorie, dimostrando i punti di incoerenza. Per non parlare dei suoi attacchi ai politici, anche quelli più liberali, come Ronald Reagan e Margaret Thatcher che lui giudicava come dei pericolosi statalisti guerrafondai, intenti ad ampliare tanto lo Stato sociale quanto l’apparato militare (quella che lui chiamava la spirale di welfare/warfare).
Non accontentandosi della teoria, Rothbard ha anche tentato di cambiare la politica, benedicendo (almeno nei primi anni) la nascita di un Partito Libertario. Tuttavia la distanza siderale fra la sua teoria e la prassi dello Stato contemporaneo ha presentato il conto. La creatura politica libertaria non ha mai spiccato il volo. Rothbard stesso, in tarda età, l’ha abbandonata, spostandosi paradossalmente su posizioni vicine a quelle dei paleo-conservatori americani. Non perché fosse diventato un conservatore lui stesso, ma perché identificava nella difesa delle tradizioni dal potere manipolatore dello Stato, la base libertaria potenzialmente più solida. L’articolo-saggio “Nazione cos’è” è l’ultimo grande lascito della sua opera politica: è un manifesto per la dissoluzione degli Stati unitari in entità territoriali più piccole, dai confini aperti e continuamente modificabili dalla volontà delle comunità locali. Un principio dell’auto-determinazione, portato alle estreme conseguenze, che tuttora influenza il pensiero di ogni serio movimento secessionista moderno.
Fu veramente realista o un utopista “a modo suo”? Molte delle analisi economiche di Rothbard sugli effetti nefasti dello Stato e dei suoi interventi manipolatori (una lezione che Rothbard ereditò dal maestro della scuola austriaca dell’economia Ludwig von Mises e, come sempre, portò alle estreme conseguenze) si stanno rivelando estremamente lungimiranti. La tendenza inflazionista delle banche centrali, la manipolazione del valore della moneta e l’irreggimentazione del mercato, l’esplosione della spesa pubblica e del debito, sono alla radice delle grandi crisi dell’ultimo trentennio e si possono spiegare solo leggendo Rothbard (e Mises). Da questo punto di vista fu decisamente più realista, non solo di un Keynes, ma anche di un Friedman. Però Rothbard era anche, fondamentalmente, un anarchico. E, come tale, si considerava un acerrimo nemico dello Stato. Non solo in teoria, ma anche nell’azione politica, qui e adesso. Fra i suoi scritti si trovano tantissimi attacchi agli Stati Uniti e al loro ruolo nel mondo (specie durante Guerra Fredda) che non sono da meno (per animosità e faziosità, ai limiti della sovversione), rispetto agli scritti di autori rivoluzionari e antagonisti come Gore Vidal e Noam Chomsky. Questa è la parte di teoria rothbardiana che continua ad essere amata dai libertari, ma confina il suo pensiero politico nell’ambito della politica estremista, come quella di Ron Paul e del suo ristretto giro di sostenitori.
Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza.
di Stefano Magni