martedì 7 ottobre 2014
Articolo 18 sì, articolo 18 no, sembra una disputa tra tifosi e verrebbe quasi da ridere se dietro al sì o al no non si nascondessero situazioni umane su cui c’è poco da ridere. La legge 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori) voluta dal ministro socialista Brodolini approvata dal Parlamento con l’astensione del Pci, regola i rapporti tra sindacato, lavoratori ed imprese dopo una stagione di lotte sindacali segnate da gravi squilibri ed ingiustizie sociali. Erano gli anni delle grandi lotte sociali e delle contestazione studentesche, con grandi fabbriche con migliaia di operai che vi lavoravano senza diritti e con grandi discriminazioni sindacali. Da quegli anni molto è cambiato, sono cambiate le aziende, l’organizzazione del lavoro, il mondo del lavoro, la struttura sociale, il ruolo del sindacato, le produzioni, sono arrivate le nuove tecnologie e sono emersi nuove problematiche che ieri non esistevano. La stessa magistratura del lavoro ieri era in grado a dare risposte veloci alle vertenze legali che i sindacati o i singoli lavoratori presentavano ai pretori del lavoro.
Già D’Alema quando è stato Premier ha provato a modificare l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ma il segretario generale della Cgil di allora, Cofferati, si scaglio contro il suo premier ideologizzando lo scontro come una battaglia di civiltà, facendone un moloch che gli è stato utile per la sua candidatura politica. La strumentalizzazione di questa battaglia è certamente un tratto saliente del massimalismo comunista o post, una battaglia di reduci dello statalismo che in Italia è dura a morire. Visto l’impossibilità ad abolire l’articolo 18, il governo Prodi tramite il ministro Treu, apre una legislazione che offre alle imprese la mobilità in entrata invece che in uscita inventando i contratti a Co.Co.Co. (contratti di collaborazione continuativa) aprendo le porte al precariato per migliaia e oggi milioni di giovani senza diritti e a salari minimi anche nei confronti dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Non so quanto c’è di sinistra in questi contratti che hanno creato una generazioni di precari riportando le condizioni dei lavoratori a situazioni di sfruttamento pre industriale. Il Governo Berlusconi con il ministro del Lavoro Sacconi prova a rimediare a questo disastro con la legge Biagi, la quale nonostante non sia del tutto applicata cosi come l’aveva concepita Biagi (ucciso dai brigatisti rossi), attenua le distorsioni provocate dalla legge Treu, ma rimane questo scandaloso rapporto di precariato a vita. Ma come sempre le toppe non risolvono il problema ma ne amplificano i disaggi creando in Italia un sistema di 45 forme contrattuali, che complicano le condizioni di vita e di lavoro.
Abolire l’articolo 18 vuol dire abolire la precarietà, perché tutti sarebbero assunti a tempo indeterminato, cosi come avviene nell’edilizia dove l’articolo 18 non si applica, e per questo non hanno meno dignità degli altri lavoratori. Anzi il sindacato si è dimostrato in questi anni inetto nel difendere i precari, perché avrebbe potuto creare un sistema come le Casse Edili per tutelare i lavoratori con questi contratti anomali. Oggi Renzi sta sfidando un tabù politico con uno scontro interno all’anima comunista del suo partito, oltre la sua minoranza interna si trova contro la Cgil della Camusso, un sindacato che da quando è stata scioltala corrente socialista ha perso il suo riformismo, cosi come il Paese da quando non esiste più un partito socialista autonomista ha perso la sua corrente riformista che riusciva a coalizzare intorno a se i riformismi laici e cattolici. Questo patrimonio disperso dal 1992 è una necessità per una rinascita e ripresa del nostro paese sia a livello economico che internazionale. Certamente se l’intervento del Governo Renzi si dovesse fermare solo all’abolizione dell’articolo 18 non sarebbe una riforma ma una controriforma, la strada obbligata deve prevedere la contestualità dell’abolizione dei vari contratti anomali facendone restare 4 o 5, (apprendistato, lavoro stagionale, part-time e tempo indeterminato), con questa riforma i lavoratori invisibili tornano ad essere visibili. Serve una stagione di riforme sul lavoro, a cominciare che qualunque lavoratore che prende un sussidio dallo Stato, deve svolgere o attività formative obbligatorie per un nuovo ricollocamento o deve prestare del tempo del suo non lavoro a lavori sociali presso i comuni, municipi o allo stato. L’idea di mettere in busta paga il Tfr (Trattamento di fine rapporto) mi sembra scellerata sia nei confronti dei lavoratori che delle imprese, i lavoratori ci rimetterebbero perché gli aumenterebbe la tassazione sulla busta paga e le imprese che già hanno poco mercato e poca liquidità subirebbero il tracollo finale. Realizzare come in Germania un salario minimo per legge, aggiornabile con i sindacati e le imprese e favorire la contrattazione aziendale legata alla produttività (ciò prevenderebbe anche una rivisitazione sul ruolo del sindacato sia in riferimento alla costituzione che a forme di cogestione).
Il vero problema che abbiamo per dare fiducia alle imprese e ai consumatori è abbassare la tassazione sulle buste paga e sulle imprese, parliamo del cuneo fiscale, pensare di aumentare le tasse è folle perché si è già dimostrato che così si è creata una condizione di deflazione. Noi riceviamo ogni hanno dall’Europa all’incirca 10 miliardi di euro che spalmiamo sui vari progetti che il più delle volte ritornano all’Europa perché non siamo in grado di spendere, l’Italia potrebbe chiedere che questa cifra venga utilizzata per abbattere il cuneo fiscale per un paio di anni per rilanciare l’economia abbassando le tasse sul lavoro e favorire cosi gli investimenti. Ciò non risolverebbe il problema del debito pubblico se poi non si concretizzano le riforme sulla razionalizzazione della pubblica amministrazione con la sua sburocratizzazione e delegificazione, riformando la giustizia e abolendo i privilegi.
(*) Già segretario generale della Fillea-Cgil del Lazio
di Roberto Giuliano (*)