L’ipocrisia italiana sull’evasione fiscale

martedì 7 ottobre 2014


Gli evasori votano. E sono milioni di voti. L’evasore colpito non dimentica. I politici dubitano che saranno premiati nell’urna per aver dato la caccia agli evasori. Mentre danno per certo che verranno puniti da chi non paga le tasse. È molto facile, nonché politicamente correttissimo, gridare “dagli all’evasore!”. Difficile è passare ai fatti. Il primo basilare incentivo all’onestà fiscale sta nelle aliquote ragionevoli. Se la percentuale da versare all’Erario è così alta da rendere conveniente l’evasione, la battaglia è persa in partenza. Se il pericolo di essere scoperti è tanto basso che ad evadere si rischia quasi nulla, è meglio lasciar perdere. Se la sanzione non è poi nemmeno troppo dura da sopportare, la causa è senza speranza.

Lo Stato carica il contribuente di un pesante basto e si meraviglia che il somaro scalci per scrollarselo di dosso. L’evasione viene quasi sempre trattata come una violazione dei doveri tributari, ma non è solo una questione di capacità contributiva. L’evasione svuota l’eguaglianza dei cittadini, perché l’evasore parziale o totale gode di un vero e proprio privilegio. Per lui è come se la legge fosse più favorevole. Infatti lo discrimina a svantaggio degli altri contribuenti pur nelle medesime condizioni.

Alla lunga, uno Stato in cui l’evasione è consistente e generalizzata perde autorità, legittimità, credibilità, perché vi è rappresentanza senza tassazione (representation without taxation!), disuguaglianza senza giustificazione, frode senza punizione, arricchimento per demerito, sfruttamento del reato. A misura che l’evasione diviene di dominio pubblico perché cade sotto gli occhi di tutti e i contribuenti infedeli se ne fanno testimoni sfacciati anziché vergognarsene con ritegno, essa fomenta ed accresce il rancore degli onesti contro lo Stato che spreme severamente i rispettosi delle leggi sulla tassazione mentre chi se ne fa beffe non può proprio dirsi, né in effetti è, un perseguitato. E di norma neppure perseguito.

Eppure, la causa profonda dell’evasione fiscale non sta nella naturale aliquota di disonesti che alligna nella società, ma nello Stato stesso, del quale i demagoghi eletti dal popolo non riescono a saziare la fame di entrate. Come insegna Adam Smith: “Non c’è arte che un governo apprende prima di quella di prosciugare il denaro dalle tasche del popolo”.

 


di Pietro Di Muccio de Quattro