sabato 4 ottobre 2014
Renzi ha la memoria corta o le opinioni cangianti. Ospite di Michele Santoro, a Servizio Pubblico, nell’aprile del 2012, affermò: «In questo momento nel mio territorio ci sono almeno 3 crisi aziendali di aziende di 150 persone che hanno deciso dalla mattina alla sera di chiudere e di andarsene». Incalzato sulle cause , dichiarò che «l’articolo 18 per loro (le aziende ndr)non è un problema. Ho detto sull’articolo 18 e lo ripeto qui che non ho trovato un solo imprenditore, in tre anni che faccio il sindaco, che mi abbia detto “Caro Renzi, io non lavoro a Firenze o in Italia, io non porto i soldi, perché c’è l’articolo 18”. Nessuno me l’ha detto».
In effetti siamo d’accordo con Renzi (anche se egli non è più d’accordo con se stesso) in quanto non c’è alcun operatore economico serio che ponga l’articolo 18 come elemento che scoraggia gli investimenti tranne qualche economista ciarlatano o qualche bottegaio in mala fede.
Il perché è presto detto: anzitutto l’articolo 18 sul quale si discute in questi giorni non esiste più da ben due anni e quindi quella che si pretende di difendere è la norma precedente alla riforma Fornero che di fatto è stata profondamente modificata. Discorso surreale quindi e per giunta relativo ad una cosa che non esiste più (il vecchio articolo 18).
In secondo luogo, la pretesa flessibilità di cui si parla non è direttamente connessa all’articolo in questione in quanto esso tutela il singolo lavoratore da eventuali licenziamenti che esulano dal giustificato motivo (furto , gravi inadempienze ecc) e non è strumentale ad eventuali ristrutturazioni aziendali per motivi economici che l’imprenditore può già decidere di porre in essere a legislazione vigente (le famose procedure di mobilità che già esistono e sulle quali sono stanziati ingenti ammortizzatori sociali).
E allora di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando dell’ennesimo totem mediatico, dell’ennesima stucchevole ed inutile discussione fatta sul niente propedeutica a far udire “rumore di carri” che non arriveranno mai.
L’articolo 18 non crea flessibilità e la sua abolizione non favorisce la creazione di nuovi posti di lavoro per il semplice motivo che il vero ostacolo allo sviluppo è costituito da burocrazia, tasse, giustizia, mancanza di infrastrutture e anche dagli orpelli costituiti dalla miriade di forme contrattuali esistenti che non aiutano a semplificare le cose.
Il rischio è che, a tendere e con la scusa della semplificazione, si voglia rendere il mercato del lavoro una specie di selvaggio west in cui il datore di lavoro abbia una sorta di ius primae noctis giuslavoristico che, in tempo di crisi, determinerebbe l’espulsione di molti lavoratori dal processo produttivo rendendo la disoccupazione strutturale molto più alta e scaricando gli effetti recessivi sui lavoratori.
Se questo fosse il disegno, se si volesse rendere il licenziamento individuale una roba tipo la cassa veloce del supermercato, sarebbe un vero autogoal in tempo di recessione perché, oltre agli effetti sopra elencati, aumenterebbe di fatto l’incertezza non invogliando certo la ripresa del mercato interno ed il famoso indice di fiducia di cui tutti si riempiono la bocca. In poche parole la disoccupazione aumenterebbe, i consumi diminuirebbero ancora e la situazione macroeconomica sarebbe definitivamente compromessa. D'altronde lo dice anche uno come Stiglitz che di economia ci capisce: «senza scendere nel merito delle riforme del mercato del lavoro nei diversi paesi europei, vorrei farvi notare che i paesi caratterizzati da un mercato del lavoro fortemente flessibile non hanno evitato le gravi conseguenze della crisi. Gli Stati uniti erano apparentemente il paese con il mercato del lavoro più flessibile, ma hanno avuto una disoccupazione al 10%. E anche oggi, quando viene propagandata la grande ripresa dell’economia statunitense, con una disoccupazione ridotta al 6%, bisogna pensare che c’è una fetta della popolazione americana sfiduciata al punto tale da aver smesso di cercare un’occupazione. Il tasso di disoccupazione reale degli Stati Uniti è attorno al 10%».
Il problema quindi non è certo l’articolo 18 (soprattutto in tempo di crisi) ma la totale assenza di regole di funzionamento del mercato che siano liberali.
Il problema è che le aziende pagano delle spese esose di mantenimento degli apparati statali, il problema è che lo Stato è azionista di maggioranza delle aziende solo quando si tratta di “staccare i dividendi”, il problema è che per aprire un’azienda ci vuole un tempo incalcolabile, il problema è che gli imprenditori non sanno a chi vendere perché nessuno spende e loro riempiono i magazzini, il problema è che le difficoltà infrastrutturali sono castranti.
Il problema non è nemmeno il credito alle imprese che tutti invocano di questi tempi. Non date loro credito perché sarebbe come prestare soldi ad un giocatore d’azzardo che vuole perdere ancora; non date loro la possibilità di fare ciò che vogliono della forza lavoro perché in questo momento la userebbero male non sapendo che il know how dei collaboratori è la loro ancora di salvezza domani; non fate loro promesse perché non si gioca con la speranza dei disperati; non date fiato alla bocca ma liberate l’economia e sfanculate gli eurorigoristi a patto che le politiche espansive vi servano a fare le riforme e non a cianciare di riforme.
di Vito Massimano