Tribunale Dreyfus, proposta referendum

sabato 12 luglio 2014


Sono molto sostanziose le modifiche apportate un po’ in extremis, e anche un po’ in sordina, da un emendamento dei relatori Finocchiaro e Calderoli, nell’ambito del disegno di legge “Revisione della parte II della Costituzione”, in tema di referendum abrogativo (nella specie articolo 75 della Costituzione). Vediamo i punti in sintesi.

Si propone di elevare da 500mila a 800mila il totale di firme necessarie per la presentazione di ciascun quesito; di anticipare però al momento in cui è stato raccolto almeno un minimo di 500mila firme il giudizio della Corte costituzionale sull’ammissibilità della richiesta referendaria; di modificare, di fatto senz’altro abbassandolo, il quorum “strutturale” per la validità del referendum, portandolo dalla metà più uno dei cittadini elettori alla metà più uno dei votanti alle ultime elezioni della Camera; di consentire solo la presentazione di quesiti su parti ampie e che possiedano comunque significato autonomo, impedendo ablazioni di testo che tale significato non possiedano e che possano caratterizzarsi come “manipolative”.

Già il primo punto evidenzia un’inclinazione alla chiusura oligarchica da parte dei proponenti, al di là di una motivazione di buon senso, apparente più che reale. Elevare le firme richieste, infatti, rende di fatto proibitivo l’obiettivo del referendum, che – è il caso di ricordare – era nato come strumento a tutela del principio di sovranità popolare contenuto nell’articolo 1 della Costituzione. La procedura di raccolta delle firme non è affatto una passeggiata in discesa, dal momento che ciascuna firma deve essere corredata dell’autenticazione di un ufficiale in possesso della necessaria qualifica e della certificazione presso il Comune di residenza dell’elettore. Non nascondiamoci dietro a un dito: raccogliere 800mila firme oggi, è dato solo a un partito politico nazionale forte di sedi, insediamento e risorse finanziarie cospicue, o magari a organizzazioni più o meno collaterali e magari ancora più potenti degli stessi partiti, come per esempio i sindacati (tanto per non fare nomi).

Ma i partiti politici, previsti dall’articolo 49 della Costituzione sono dominanti per definizione nelle assemblee elettive e in particolare nel Parlamento nazionale. I partiti, anche quelli di minoranza, possono certo essere, ma con altrettanta certezza non devono necessariamente essere il dominus dell’iter referendario, di uno strumento cioè che può senz’altro consentire a una minoranza parlamentare sconfitta di appellarsi al popolo per farne sentire la voce autentica, ma potrebbe anche rappresentare – lo si è visto più volte nella storia recente – la voce dell’opposizione popolare tout court a scelte compiute dai partiti in maniera non abbastanza rappresentativa della volontà generale.

Insomma, i comitati promotori, già riconosciuti dalla Corte costituzionale come potere ufficiale dello Stato in sede referendaria, devono essere svincolati da ferree affiliazioni partitiche o di altra logica associativo-corporativa e a questo non giova certo la barriera posta dall’innalzamento del numero di firme. Tanto più che l’innalzamento delle firme non è di per sé garante della riduzione del numero eccessivo di quesiti proposti – in passato oggetto di polemiche – ma rischia semplicemente di azzerare delle giustificate richieste.

Vanno nella direzione giusta, e sono pertanto da condividersi, il secondo e il terzo punto della proposta. Per quanto riguarda il secondo, è da approvarsi in linea di principio la saggia misura consistente nell’accertamento di un minimo di interesse della cittadinanza al quesito o ai quesiti proposti (lo è come concetto generale, ma l’accertamento andrebbe svolto a una frazione dei 500mila, non del milione). In tal modo, si eviterebbe la dispersione di risorse e sforzi umani in vista di un obiettivo comunque irraggiungibile. Il terzo punto è ragionevole in quanto mira a salvaguardare la verifica di un livello generale minimo di interesse per la contesa politica, senza però compiacere e premiare, come finora di fatto è avvenuto, gruppi di astensionisti organizzati e consapevoli dell’impopolarità delle rispettive posizioni ma che si sono fatti forti delle proprie dubbie ragioni occultandosi nella selva di un astensionismo indiscriminato, di indifferenza o contestazione generale, sempre in crescita negli ultimi decenni.

Al riguardo non esiste una scelta perfetta e indiscutibile in astratto; perciò quella di considerare valido il referendum se vi ha partecipato almeno la metà dei votanti alle ultime elezioni politiche è una scelta condivisibile secondo un sano criterio empirico.

Va rilevato come essa si ponga in contrasto, difficile da giustificare, con l’innalzamento delle firme (punto 1), se si parte dall’assunto che vi sia un nesso logico tra i due requisiti. Con l’emendamento Finocchiaro-Calderoli il rapporto numerico tra elettori promotori di un referendum ed elettori votanti rischia di subire una fortissima alterazione potenziale.

Del tutto discutibile, di nuovo, è la proposta al quarto punto. Non si possono qui ripercorrere le tappe di una lunghissima e accidentata giurisprudenza costituzionale in tema di cause di (in)ammissibilità di richieste referendarie. Ma si può dire che tale giurisprudenza, con la ripetuta – e non sempre coerente – esclusione di quesiti ‘manipolativi’ in quanto miranti a ottenere effetti di fatto propositivi per il fatto di ‘cucire’ tra loro previsioni normative eterogenee attribuendo ad esse significati del tutto alterati rispetto a quelli originari, mediante ablazioni abilmente selettive di norme spesso di per sé prive di significato compiuto (sentenze 36/1997 e 50/2000 della Corte costituzionale) è stata neanche del tutto coerente con l’opposta previsione originaria del referendum puramente abrogativo, in quanto il requisito dell’omogeneità ha reso impossibile presentare agli elettori ampi articolati di legge da abrogare (sentenze 16/1978 e 28/1987), per non parlare delle intere leggi di cui pure parla l’articolo 75 della Costituzione.

È, insomma, la natura del referendum abrogativo, pur con le nobili intenzioni da riconoscere ai padri costituenti, a tradire il proprio logoramento. Si è riscontrato a più riprese come, anche a voler riconoscere la massima buona fede agli odierni cultori dell’original intent dei nostri padri costituenti, non è del tutto in buona fede l’attuazione che ne è stata data dai nostri legislatori dell’oggi e di uno ieri più recente. Se è vero che abrogare non significa ‘non disporre’ ma ‘disporre diversamente’, è vero altrettanto che all’elettorato di un grande Paese sviluppato e consapevole del ventunesimo secolo si può chiedere qualcosa di più che la mera creazione di un vuoto, di una lacuna normativa che i parlamentari eletti siano chiamati a riempire nel modo che loro aggrada di più, e talora in un modo che tutti sanno essere semplicemente in opposizione frontale alle aspettative dei cittadini.

Ecco perché si formula qui una proposta innovativa, per quanto dirompenti ne possano apparire le conseguenze. I promotori di un referendum siano espressamente obbligati, in forza di legge e magari persino di Costituzione, a presentare da un lato quesiti abrogativi ‘come si deve’, ma al tempo stesso a corredare le proprie richieste di sintetiche relazioni di accompagnamento nelle quali essi stessi dichiarino le finalità di fondo, l’indirizzo legislativo auspicato come complemento successivo dell’eventuale abrogazione referendaria.

Dopodiché, nel caso in cui si sia dato luogo alla stessa abrogazione, un vincolo però sia posto a carico del Parlamento. Esso si deve pronunciare nel senso di dare attuazione ragionevolmente fedele, entro tempi ragionevoli (per esempio novanta giorni dalla data del referendum) all’orientamento del corpo elettorale, per come espresso sia con l’abrogazione sia con la relazione ‘propositiva’ allegata al quesito. Diversamente, non si deve esitare, anche con previsioni costituzionali, a sancire forme di decadenza delle Camere stesse, la cui necessità sia accertata da un’alta istanza giurisdizionale (Corte costituzionale) a cui far seguire il decreto di scioglimento delle camere da parte del capo dello Stato.


di Andrea Bernaudo