sabato 21 giugno 2014
Nella riforma del Senato che ha in testa Matteo Renzi quel che luccica non è tutto oro. Al contrario, l’abolizione di alcune funzioni vitali potrebbero generare una perdita ulteriore di equilibrio tra poteri sovrani. È pensabile che si possa cedere per intero la funzione legislativa ad un organo nel quale le maggioranze politiche potrebbero variare in qualsiasi momento, giacché ogni singolo parlamentare manterrebbe il vantaggio della libertà di mandato (art. 67 C.)?
Il fenomeno delle trasmigrazioni da un settore all’altro del Parlamento, quasi del tutto sconosciuto alla Prima Repubblica, è esploso in questi ultimi vent’anni per effetto della sostanziale disarticolazione dei partiti tradizionali. La crisi del collante ideologico ha smarrito quel fattore identitario sul quale fondava la rappresentanza politica al tempo della Prima Repubblica. Un comunista era un comunista, e lo era prim’ancora di essere senatore, deputato e financo semplice cittadino. Altrettanto, un democristiano restava orgogliosamente democristiano, qualsiasi cosa accadesse alla sua personale vicenda politica. Non parliamo della destra missina la cui esclusione permanente dal cosiddetto “arco costituzionale” rappresentava, per gli iscritti e per i rappresentanti parlamentari, motivo d’orgoglio e di distinzione di tipo quasi antropologico.
Nella Seconda Repubblica il vuoto lasciato dall’elemento “ideologia” è stato occupato da un più concreto pragmatismo che ha condotto l’eletto a prestare maggiore attenzione ai fattori di opportunità, se non di convenienza personale, al più di gruppo o di cordata. Il voto parlamentare ha assunto un valore fungibile al pari di qualsiasi altro bene a cui sia possibile conferire un prezzo di mercato. Attualmente, il frazionismo per un verso e la personalizzazione della politica dall’altro hanno reso più frequente il rovesciamento, in corso di legislatura, del risultato elettorale emerso dalle urne. Delle ultime cinque legislature, esclusa quella corrente, che si sono succedute durante la cosiddetta Seconda Repubblica, a far data dal 1994, ben quattro si sono concluse con maggioranze diverse da quelle espresse al momento del voto dal corpo elettorale. E di queste, ben due si sono interrotte anticipatamente rispetto alla scadenza naturale.
I progetti di riforma squadernati dalle forze politiche conferirebbero alla sola Camera dei deputati il compito di dare la fiducia al Governo. Di fatto i voti espressi non verrebbero soltanto contati ma anche pesati, costituendo ogni singolo parlamentare un interlocutore diretto per la composizione negoziata della maggioranza necessaria ad esprimere la fiducia al Governo o a deliberare sull’approvazione di un testo di legge. Così rischiamo di tornare a forme pre-democratiche di concezione della dinamica parlamentare, da “feudalesimo repubblicano” dove la natura del delegato non ha più genesi politica, ma contrattuale.
Il Parlamento sarebbe trasformato in una sorta di novella “Sala dei baroni”. Pensare, dunque, di introdurre il monocameralismo come soluzione “sic et simpliciter” ai problemi di inefficienza e di ritardo della macchina dello Stato, senza modificare integralmente l’impianto istituzionale, è una scelta semplicemente sbagliata. Di più, è una scelta pericolosa. Con l’assegnazione ad una sola Camera della responsabilità suprema di dare o revocare la fiducia al Governo si paventa un concreto rischio per la tenuta democratica del Paese. Il potere di vita e di morte dell’Esecutivo affidato a un esiguo numero di individui materializzerebbe lo spettro di un potere oligarchico.
Se poi si vuole applicare il monocameralismo ad ogni costo, allora lo si faccia modificando, contestualmente, l’assetto attuale della bilancia dei poteri. Si lasci al Parlamento monocamerale la potestà legislativa, introducendo correttivi al meccanismo di approvazione delle leggi di modo da evitarne l’eccessiva precarietà. L’investitura dell’Esecutivo, invece, venga direttamente dal corpo elettorale, il quale, per ragioni di equilibrio, deve riappropriarsi di questa funzione sovrana. La proposta avanzata da Forza Italia per l’introduzione del presidenzialismo, attraverso l’elezione diretta del Capo dello Stato, è un buon primo passo a cui dovranno seguirne altri.
Comunque, poco importa se alla fine dei giochi la forma di Governo sarà quella presidenziale o il premierato. Se ne discuterà. Ciò che importa è che la vita della democrazia non venga posta esclusivamente nelle mani di partiti declassati a centri di collocamento di singoli individui in posti di potere. Altri aspetti di una reviviscenza del feudalesimo, quale fenomeno storico-culturale, potrebbero attrarci, ma non quello, eticamente deprecabile e politicamente fallimentare, di un rinnovellato oligarchismo baronale.
di Cristofaro Sola