L’utopia dell’unità dei Moderati

sabato 7 giugno 2014


Dopo gli esiti del voto per le Europee si fa un gran parlare del problema di riunire i cosiddetti moderati, per tornare a contrastare la sinistra, oggi vincente nelle scelte degli elettori. Per la riunificazione le ricette non mancano. Dal “tutti insieme appassionatamente”, alle soluzioni “ad escludendum”: FI+Ncd+Fd’I, fuori la Lega, o FI+Lega+Fd’I, fuori l’Ncd e il possibile monoblocco moderato dell’Udc. Per i più fantasiosi vi sarebbe anche l’opzione “fusione fredda” al centro di Udc, Ncd, Popolari per l’Italia, affranti della moritura Scelta Civica nonché scampati alla deflagrazione annunciata del movimento di Silvio Berlusconi. A ramengo tutti gli altri.

Insomma, come se nulla fosse accaduto in questi ultimi anni e come se non si fosse consumata una visione della destra che va ben oltre la parabola di una stagione politica, si continua a pensare che la semplice aritmetica possa rimediare alla falla che si è determinata nel sistema. Le analisi di cortissimo respiro non riescono a cogliere il senso della radicale trasformazione, che è alle porte della nostra civiltà.

Quanto impiegheranno gli italiani di destra a dichiarare apertamente che l’Unione Europea, retta dalla sua nascita, alternativamente sia dal blocco socialdemocratico della sinistra riformista, sia da quello popolare della destra moderata, ha fallito? O meglio, che non sia stata conseguita la missione prioritaria la quale era nella prima configurazione di scenario, quello tracciato da Robert Schuman, Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer negli anni Cinquanta: cooperare per diffondere il benessere, ridistribuendo ricchezza alle fasce medie e basse della popolazione europea? Quando comprenderanno che il disegno di un’Europa fondata sullo sviluppo di una società della conoscenza, qualitativamente più competitiva e solida abbastanza da reggere le sfide imposte dalla globalizzazione, è carta straccia?

Per raggiungere l’obiettivo la strada ridelineata, oltre vent’anni orsono dalle classi dominanti dell’epoca, avrebbe condotto all’instaurazione di un nuovo ordine economico-politico. Il principio fondante della nuova Europa avrebbe fatto perno sulla progressiva riduzione della sovranità individuale dei Paesi membri. La ritrazione dalla potestà decisionale degli Stati nazionali in un numero crescente di materie avrebbe dato luogo al consolidamento di un potere sovraordinato, impermeabile alle oscillazioni connaturate al funzionamento dei regimi democratici e amministrato da strutture tecnocratiche di governance le quali avrebbero fatto volentieri a meno della legittimazione del voto popolare. L’abbattimento di tutte le barriere avrebbe consentito l’ingresso trionfale di un liberismo economico tout court, del tipo “libere volpi, in libero pollaio”.

L’antropologia, non la politica, avrebbe poi certificato il mutamento genetico della specie umana a massa liquida di consumatori onnivori, in particolare del superfluo. I consumi, non i valori etici, avrebbero dovuto stimolare la domanda interna. La maggiore produttività avrebbe dovuto portare, ai privati, occupazione e nuove opportunità d’impresa e agli Stati, più soldi in cassa per pagare i debiti. E’ di tutta evidenza che non sia andata così. Il meccanismo è saltato. Gli Stati si sono indebitati oltre misura, giungendo a pagare interessi da usura per il denaro acquistato sul libero mercato.

Ora, la priorità è divenuta quella di contenere la spesa pubblica. Soprattutto, di non operare in deficit. La conseguenza di questa brusca frenata ha prodotto, nella maggior parte d’Europa, disoccupazione, povertà e debiti. E non è finita, visto che il continente nel suo complesso cresce poco, in prodotto lordo, rispetto alle altre zone del pianeta. Il futuro riserva ancora amare certezze. La più crudele di tutte sarà, a breve, l’entrata in vigore del trattato sulla stabilità, coordinamento e governance (TSCG) dell’area euro dell’ Unione europea. L’Italia, al pari degli altri Stati firmatari del trattato, si è obbligata a rientrare della parte di debito pubblico che eccede la quota del 60%, con un ritmo medio di un ventesimo all’anno del valore dell’eccedenza certificata in sede di organismi europei.

Tradotto, vuol dire che nel prossimo futuro i bilanci dello Stato, oltre a non violare l’obbligo del pareggio, dovranno farsi carico del rientro dall’eccesso di debito, in quota parte. Il fatto è che si tratta di una montagna di soldi che non riusciremo a mettere insieme. A meno che non si pensi di tagliare il welfare, la previdenza, privarci quasi del tutto del sistema di difesa nazionale e operare una robusta potatura dell’organico della pubblica amministrazione. Lo Stato resterà in piedi soltanto per fare da gabelliere e da poliziotto fiscale, incaricandosi di riscuotere le tasse e, quando occorre, aggiungerne di nuove. A quel punto al popolo di destra si imporrà una scelta di campo.

Dovrà decidere da che parte schierarsi. Se continuare a stare nella scia di chi promette la terra promessa, nella speranza che il moderatismo politico abbia ancora una possibilità di sopravvivenza o piantarsi a terra e mandare tutto a carte quarantotto. Quando saremo giunti lì, dove mai avremmo immaginato di essere, pensate che abbia più un senso dirsi alfaniani o casiniani o diversamente berlusconiani? Altro conterà che l’essere più giovani, più belli o più simpatici. Probabilmente la leadership verrà contesa sul consenso a uno o all’altro modello di civiltà, al quale si pensa di approdare. Allora, prima degli uomini, conteranno le idee.


di Cristofaro Sola