giovedì 29 maggio 2014
IL PD – Le Europee del 2014 rappresentano probabilmente un anno zero sia per il Pd che per il centrodestra, ovviamente per motivi diversi. Grazie a Renzi il Pd diventa finalmente un partito a vocazione maggioritaria e post-ideologico, ciò che avrebbe dovuto essere fin dalla sua nascita ma che fino ad oggi non era mai stato. In attesa delle più autorevoli analisi dei flussi elettorali, azzardiamo che Renzi non solo riporta a casa molti dei suoi dopo la sbandata grillina del 2013, ma attrae voto moderato cannabilizzando l’ex “Scelta cinica” (2,8 milioni di voti nel 2013) e, cosa più importante, convincendo quel nord parte più dinamica e produttiva del paese che sembrava tabù per la sinistra e territorio del centrodestra.
Il Pd (soprattutto il vecchio Pd) dovrà capire quanto prima che i voti della straordinaria vittoria di oggi li ha presi Renzi, non il Pd. Renzi ha conquistato voti di altre persone, 2,5 milioni, che senza di lui non avrebbero mai votato Pd. Voti che senza Renzi sarebbero rimasti dov’erano, cioè a Grillo o a casa. Se Letta fosse rimasto ancora al governo, forse avrebbe preso ancora meno voti di Bersani l’anno scorso. E il risultato di oggi autorizza a ritenere che se all’ex sindaco di Firenze non fosse stata sbarrata la strada alle primarie contro Bersani, forse questo successo il Pd l’avrebbe ottenuto alle politiche del 2013 e avremmo tutti risparmiato un anno di risse e immobilismo.
Attenzione però ai facili entusiasmi: non sono elezioni politiche e la percentuale del 41% è gonfiata dalla ridotta affluenza alle urne (solo il 58%). In termini di voti reali Renzi ha riportato il Pd su livelli vicini ma ancora leggermente al di sotto (di 1 milione circa) delle sue migliori performance (circa 12 milioni di voti alle politiche del 2008 e del 2006). Tuttavia, ciò che rende il suo un risultato epocale, al contrario dei precedenti, è che per la prima volta il Pd riesce a vincere non facendo il pieno a sinistra ma conquistando il centro politico dell’elettorato, insomma c’è stato uno “shift” verso il centro: se i numeri somigliano a quelli del 2008, l’elettorato in realtà è molto diverso, e in un certo senso ha un peso specifico maggiore. E’ un elettorato che ti permette di vincere e di governare da solo o quasi.
Certo, Renzi è stato anche favorito da alcune circostanze molto contingenti: sia Grillo con i suoi toni aggressivi e minacciosi, il suo “vinceremonoi”, sia i sondaggi che stavolta per non sbagliare hanno sovrastimato il M5S, hanno posto l’elettorato di fronte all’eventualità di una vera e propria vittoria di Grillo, del sorpasso finale ai danni del Pd, e non solo di un forte vento di protesta. Molti elettori si sono mobilitati per scongiurare tale scenario. Urlatori e odiatori seriali ma inconcludenti hanno evidentemente cominciato a infastidire: soffiando sulla rabbia si possono prendere molti voti, ma suscitando paure e non speranze, presagendo sventure, non si vince.
Renzi da parte sua non ha sbagliato nemmeno un colpo: più che il gap tra annunci e fatti, più che gli 80 euro, hanno contato la sua energia, la sua voglia e il suo senso si urgenza nel cercare di cominciare subito a “cambiare verso” al paese. Finalmente qualcuno che ci prova sul serio, che vuole procedere a passo di carica e non felpato. E’ bastato questo filo di speranza a convincere l’elettorato che valesse la pena mobilitarsi per impedire che venisse spezzato sul nascere dalla furia distruttiva del M5S. Dunque, davvero, si è votato non tanto sull’Europa, quanto sull’Italia: un referendum tra rabbia e speranza rispetto al nostro futuro, esattamente i termini in cui abilmente Renzi ha saputo, con l’aiuto di Grillo, impostare l’intera narrazione della campagna. La mia personale impressione è che la ciliegina sulla torta, il momento decisivo, sia stato lo scontro con Floris a Ballarò sui 150 milioni di tagli alla Rai. In quel momento più di qualche elettore moderato ma anche di sinistra deve aver pensato: oh, finalmente qualcuno fa sul serio. Gasparri e Romani che nel frattempo si esprimevano in difesa della tv pubblica davano la misura del suicidio in atto da anni nel centrodestra.
Adesso però si presenta a Renzi un’occasione storica: la vecchia sinistra è alle corde, è chiaro a tutti che è lui l’unico futuro del Pd, o capitalizza la vittoria e riforma il paese davvero, sfidando fino in fondo la Cgil e tutte le altre realtà più retrograde della sinistra e dell’establishment, senza guardare in faccia nessuno, o perde tutto con la stessa velocità con cui l’ha conquistato. Anche perché la prossima volta probabilmente non ci sarà il pericolo Grillo a mobilitare l’elettorato in suo favore.
IL CENTRODESTRA – Ma si tratta di un anno zero anche per il centrodestra, sia pure per motivi opposti. Frantumato, litigioso e senza leadership sembra aver toccato il fondo. E sembra un suicidio collettivo meticolosamente preparato dagli ex Pdl (al netto degli inevitabili esiti delle manovre interne ed esterne del 2011): allarmanti non sono tanto le percentuali, quanto la tipologia dell’elettorato perduto dopo due decenni, la parte più dinamica e produttiva del paese.
Sembra prefigurarsi un sistema tripolare ma di fatto bloccato, con un partito di centrosinistra e di governo pienamente legittimato, com’era la Dc (oggi il Pd), un partito anti-sistema (Grillo), che raccoglie frustrazioni e residui ideologici di sinistra e destra, e una galassia litigiosa e rancorosa di resti del centrodestra berlusconiano, in cui Forza Italia rappresenta un perno ancora rilevante elettoralmente ma sul filo della marginalità politica. In questo schema, avvantaggiandosi della frantumazione del centrodestra e del “pericolo Grillo”, il Pd potrebbe ritrovarsi sempre al governo, sia che l’elettorato si sposti a sinistra, ovviamente, sia che si sposti a destra (conservando la maggioranza relativa e aprendo agli spezzoni del centro “presentabili”).
Esiste ancora un centrodestra italiano? Se non esiste più elettoralmente, ma solo come una pluralità di realtà sociali e culturali nel paese, allora non avrebbe senso esercitarsi nella somma delle cifre elettorali dei partiti rimasti. Quella somma, il 31%, è il segno di una sconfitta netta ed inequivocabile, ma bisogna chiedersi se può essere o meno una base da cui ripartire. Di cosa è fatta? Di un generoso voto di testimonianza confermato a Silvio Berlusconi (quasi il 17%); di un voto altrettanto generoso, ma identitario, per Fratelli d’Italia; e di un progetto presuntuoso e velleitario, Ncd, che pur potendo contare su 4 ministeri pesanti non è riuscito ad andare oltre il 2,5% (l’1,8 almeno bisognerà riconoscerglielo a Casini!), e si avvia verso la stessa mesta sorte dei finiani.
Ci sono, d’altra parte, 7 milioni di astenuti in più rispetto alle politiche del 2013, 10 milioni rispetto a quelle del 2008, e quasi 4 milioni rispetto alle europee del 2009. Insomma, sembra esserci un popolo di centrodestra che aspetta una nuova offerta e una nuova leadership. Il centrodestra italiano esiste proprio perché non è una somma di percentuali elettorali. Il *nuovo centrodestra*, tutto da costruire elettoralmente, sta nelle ragioni di chi è rimasto a casa, non nelle frattaglie di ceto politico da 3/4%. E il fusionismo va senz’altro coltivato, ma non tra quelle frattaglie che non rappresentano più nessuno. Sarebbe un errore reagire demonizzando Renzi come per due decenni la sinistra ha demonizzato Berlusconi, e sarebbe un errore anche tentare di rimettere insieme le frattaglie di un ceto politico dal 3/4%, come per troppo tempo ha fatto anche l’Ulivo/Pd anziché cercare una vocazione maggioritaria.
Ci sono alcune condizioni, riguardanti sia l’assetto del sistema politico sia l’identità, alle quali può ancora esistere un centrodestra in Italia: bipolarismo/presidenzialismo, approccio fusionista, centralità di temi come tasse e giustizia, europeismo critico. Oltre che di contenuti, ovviamente il problema è di credibilità e ricambio di leadership, se si vuole recuperare la parte economicamente e socialmente più dinamica del paese. Puoi pure dire le cose più giuste, ma sei sempre quello che soprattutto durante l’esperienza di governo 2008-2011, con la politica economico-sociale affidata al duo Tremonti-Sacconi, ha tradito le promesse di rivoluzione liberale. Primo passo, quindi, riconoscere l’errore, segnare una cesura netta con quell’esperienza e rinnovare in modo aperto la leadership.
GRILLO – Quanto a Grillo, non c’era migliore occasione per fare il pieno di voti di un’elezione in cui non era in gioco la guida del governo e che si presentava come un enorme sfogatoio collettivo contro l’Europa. Ma l’ha mancata. Il popolo di Grillo è in gran parte il popolo di moralizzatori e odiatori seriali allevato da Repubblica/Unità/Fatto quotidiano/Santoro. Solo che questi sapevano di dire un sacco di cazzate pur di abbattere l’avversario del momento, invece i loro lettori/spettatori ci sono cresciuti e ora ci credono. Chi ha seminato per decenni (dalle monetine a Craxi) tutto questo odio, disprezzo per l’avversario, questo analfabetismo economico e complottismo, ora ne ha perso il controllo: in certi attacchi grillini al Pd sembra di risentire quelli della schiera Pd/Repubblica/Travaglio a Berlusconi. Il giustizialismo, la questione morale, il mito della decrescita, del “tutto pubblico”, le bufale ambientaliste e complottiste, l’antimilitarismo, arrivano tutti da sinistra. In misura minore il popolo di Grillo è anche di piccoli imprenditori, artigiani, commercianti arrabbiati e delusi da centrodestra e Lega.
La principale contraddizione del M5S però è che da una parte scagliano il loro “vaffa” alla casta, ai politici, dall’altra vogliono il “tutto pubblico”. Ma quando tutto è pubblico si allargano, non si riducono gli spazi di influenza, il potere della casta. Non serve a nulla sostenere che i politici devono essere onesti: è persino ovvio, ma l’esperienza ci insegna che più ampio è il controllo pubblico, più margini ci sono per disonesti e corrotti. E’ una legge fisica, e statistica.
NO-EURO – Uscita molto ridimensionata da queste elezioni è anche la posizione no-euro. L’occasione era propizia, il vento antieuropeista soffiava forte, le schede elettorali erano piene di offerte politiche no-euro, ce n’erano per tutti i gusti, dalle più hard alle più soft… In altri paesi hanno fatto il pieno di voti, in Italia no. Renzi non ha dovuto mettere sul piatto l’uscita dall’euro per raggiungere il 40%, e ben il 42% degli elettori ha preferito astenersi piuttosto che aderire in massa alle proposte no-euro. Ovvio, non è che l’euro vada bene così com’è, ma gli italiani devono aver percepito puzza di sòla all’idea di uscire dalla moneta unica.
In generale, la critica all’Europa andrebbe mossa a partire da quel pensiero unico economico – che sembra accomunare PSE e PPE – secondo cui la crescita si fa con gli investimenti pubblici e i fondi europei, cioè con la spesa, e il rigore si fa con le tasse. A cui si aggiunge quella logica contabile delle coperture, per cui non viene nemmeno ipotizzato come credibile l’effetto espansivo di un taglio fiscale, mentre sono accettate come moneta corrente le supposte nuove entrate derivanti da un aumento di tasse. Anche se poi, alla prova dei fatti, quell’aumento avrà un effetto recessivo, e quindi avrà generato un gettito inferiore alle attese.
Tratto da http://notapolitica.it
di Federico Punzi