giovedì 29 maggio 2014
Primo punto: una nuova politica può affermarsi soltanto se avrà come fondamento un programma dell’educazione. Secondo: tutti gli autori della nuova politica dovranno aver ben chiaro il senso e il processo di un programma politico pensato, scritto, parlato dall’educazione. Terzo: se, com’è indispensabile, gli autori della nuova politica che si candideranno ad essere la nuova classe dirigente dell’Italia, saranno i giovani, dovrà essere loro ben chiaro che così agendo essi stanno ponendo sul tavolo nientemeno che il discorso del potere.
Ma non ci diciamo da sempre: “Alla larga dal potere!”. Alla larga, sì… ma non “alla larga” per ingenuità, falsa innocenza, ideologia o pregiudizio morale. Ci siamo detti sempre “alla larga” per una distanza connaturata, per la nostra incapacità di riuscire a inquadrare un qualsiasi rapporto generativo, creativo, amichevole, tra pensiero e potere nell’Italia di oggi, nell’Italia divorata da almeno tre generazioni di Classe Digerente.
Il potere ci riguarda per intero. Ci angoscia sì, ma non possiamo nasconderci che porre al centro della rinascita la questione dell’educazione, e quindi dell’istruzione, dell’insegnamento e del suo senso, ci pone allo stesso tavolo del potere. E siccome il potere non è una categoria ma un dato di realtà, non giriamoci intorno: senza averne la forza, noi non potremo mai affermare una nuova politica per costruire una nuova comunità. Se ci sentiamo più a nostro agio, cambiamo la parola potere in forza. Non è un trucco, è un messaggio: poiché la forza unisce e il potere divide. Com’è dunque un programma dell’educazione? Dobbiamo avviare il discorso. E ci conviene avviarlo sulla via tracciata dal perdurante ascolto del nostro stesso desiderio. Il nostro desiderio, il “mio” desiderio = il desiderio del mio altro: il desiderio di trasformare l’Io in Noi. Diversamente si tornerebbe a porre la questione in termini di economia di un sistema dato: insomma in ideologia dello Stato. diventato “noi”, “io” mi ascolto e mi vedo parlato e agito da un desiderio non patteggiabile. “Io” lo chiamo in un modo intimo: “Desiderio di insegnare ai bambini e ai ragazzi”. Cioè alla “parte bambina e ragazza” delle persone. Insegnare che cosa, se non la differenza tra la bellezza e il possesso degli oggetti e degli esseri umani ridotti ad oggetti?
Il primo esempio da fare è provocatorio. Tra le cosiddette “materie” del programma scolastico, la classe politica ha inserito da alcuni decenni un qualcosa impudicamente detto “Educazione Civica”. E ha ficcato dentro questa “materia” l’insegnamento della… Costituzione. È importante porre questo esempio come modello dell’incuria, della menzogna, del disprezzo del potere verso i suoi sudditi. Certo, i primi ad essere disprezzati dal potere sono gli Insegnanti, ridotti a scaffalatura di supermercato per vendere una merce: la Costituzione nel packaging dell’Educazione civica.
Sta dunque agli insegnanti – alla singola persona dell’insegnante – assumersi la responsabilità di questo disprezzo istituzionale verso i giovani: farsene complici o trasformare questa “ora di stupro” in momento di verità, di amore, di conoscenza, di scambio dell’insegnamento con l’apprendimento, dell’io con il tu… per esempio, guardandosi bene dal ficcare una flebo costituzionale ma interrogando-ascoltando sulla comunità, sulla generosità, sull’accoglienza, sul prendersi cura dello Stato come della propria famiglia. L’insegnamento è la parola. E la parola è lo sguardo sull’altro.
La parola dell’insegnante è la parola dell’allievo, così come la parola dell’allievo è l’ascolto della parola dell’insegnante, il quale (proprio lui/lei, la sua persona) sappia intimamente che la sua parola è la parola di chi lo elegge a Insegnante ogni giorno, ogni minuto. Nell’insegnamento istituzionale la parola non c’è. Al suo posto c’è una convenzione stabilita, una funzione (un “funzionamento”) mai discusso, mai discutibile: il maestro è un’emittente/funzione e l’allievo è un ricettacolo/scopo. L’uno e l’altro sono in balia di un progetto altrui (della necessità, della prescrizione, delle Leggi, dello Stato), che in nessun modo e in nessun tempo prevede la parola, in nessuna accezione né eccezione la tollera. E in cui, al contrario, la parola è sanzionata come avversaria pericolosa dell’ordine e della funzione.
La funzione è un percorso inconsistente, che prende il via da un feticcio: “Lo svolgimento dei programmi scolastici”. Cioè di quella astrazione che non prevede il discorso del maestro né il discorso dell’allievo. Nei fatti, ogni volta che un maestro e un allievo si manifestano nel loro discorso, essi sono puniti – sanzionati – per lesa istituzione (il programma, i voti, gli esami…). La loro vita non è prevista. È abietta. Così come è rimosso dall’insegnamento, il maestro in quanto tale, chiunque egli sia. La sua interdizione è istituzionale. A lui infatti non è richiesta maestria. Egli non può – e anche se lo vuole fortemente e intimamente, ciò gli è reso così difficile da farlo desistere – accedere al valore del conoscere-per-insegnare.
Il maestro è tenuto e mantenuto nell’ignoranza e, quel che è più sadico, nell’impossibilità di mettere in atto il suo desiderio di apprendere dall’insegnare. In più, il maestro non è fornito e nutrito di strumenti per saper discernere il bello dal buono, per dare a se stesso e all’allievo il senso prospettico del passato e del presente, della conservazione e dell’invenzione.
Ciò situa e installa il maestro nella prigionia del presente disvalore e, peggio ancora, nella cecità di sguardo sul presente e sul feticcio degli oggetti della tecnica. E qualora – il caso può darsi e si dà – il singolo maestro riesca a sfuggire (per suo rango, per sua propria concezione del mondo o per avventurosa illuminazione) alla prigionia del senso istituzionale dell’insegnamento, egli può perfino rischiare di venire perseguito da un establishment che lo accuserà, lo dileggerà, lo annienterà economicamente (togliendogli anche il vergognoso salario che gli spetta) per traviamento degli allievi, per danno oggettivo grave al bambino o al ragazzo. L’apparato accusatorio va, in tali casi, dal giudizio di “bizzarria” a quello di incapacità nello “svolgimento dei programmi scolastici”. Al maestro è tolta la parola, lo scambio tra il suo desiderio e il desiderio dell’allievo.
Ci fermiamo qui. Ci siamo un po’ dilungati per mostrare il punto da cui dovrà prendere il via la bella avventura del che ci aspetta. Affinché sia chiaro che la società nella quale noi viviamo è la società dell’incuria, e che dunque non possiamo immaginare di scendere a patti con la sua classe dirigente.
La nuova politica fondata sull’educazione non potrà essere uno slogan, ma il frutto del nostro sentirci comunità: scambio dell’io con il tu nel linguaggio, del prendersi cura dell’altro come di se stesso. A partire dall’insegnare ad apprendere, dall’apprendere ad insegnare (continua).
di Girolamo Melis