mercoledì 9 aprile 2014
La seconda fase della Lega Nord, quella di regime, si apre con il nuovo millennio e reca i simboli e gli status della partecipazione al Governo del Paese. Non ci sono più “barbari” nell’orizzonte leghista. Solo una sequenza di ordinati amministratori in “doppiopetto” e di colletti bianchi inamidati. È il momento di entrare nei consigli di amministrazione delle banche, soprattutto del Nord, e delle grandi aziende della mano pubblica.
Gli elmi con le corna, della fase “sturm und drang”, casoeũla e polenta, del periodo romantico della Lega, vengono accuratamente collocati nel fondo del baule dei ricordi. La vittoria berlusconiana consente anche ai leghisti una messe di poltrone e di posti di sottogoverno solo sfiorati nella precedente fulminea esperienza di potere del 1994. In fondo, si potrebbe azzardare che si tratti di un ripresa parziale del pensiero di Miglio, ad uso di un novello utilitarismo della classe dirigente leghista, divenuta nel frattempo più dialogante con l’odiato “sistema”. Ne è prova lo Statuto federale approvato nel 2002, nel quale la categoria concettuale del secessionismo permane, sebbene in una dimensione escatologica, metastorica, di un “altrove” la cui esplorazione è ammessa, però non è all’ordine del giorno, anzi è rinviata “sine die”.
In realtà nel programma trova spazio un più concreto progetto federalista di tipo funzionale, declinato nella forma della “devolution”. La strada del decentramento di alcune competenze dal centro alla periferia era stata aperta, in precedenza, dalla maldestra manovra del centrosinistra culminata con l’approvazione, in coda alla XIII legislatura, di una modifica costituzionale. L’affrettata riforma, per infime ragioni di consenso elettorale, proponendosi lo scopo di aumentare le competenze esclusive regionali, di fatto ha contribuito a far crescere esponenzialmente il disordine istituzionale nei rapporti tra Stato e nuovi centri di governo periferico del territorio. È con la riforma costituzionale, ispirata da Umberto Bossi e approvata nel novembre del 2005, che l’approccio federalista prende forma compiuta nell’architettura istituzionale dello Stato. L’idea-simbolo della trasformazione è consegnata alla Storia dalla mutazione della “Camera Alta” del Parlamento in Senato federale. Purtroppo, la sconfitta elettorale del 2006, anticipando di poco il referendum confermativo della legge costituzionale, approvata senza la maggioranza dei due terzi del Parlamento, infrange il sogno leghista. Gli italiani, non comprendendo l’importanza epocale della scelta, disertano le urne. Cosicché uno striminzito 31% degli aventi diritto pone un “no” sulla scheda referendaria e una pietra tombale sul cambiamento.
La Lega degli anni Duemila ha mutato ancora una volta il piano tattico. In positivo, non persegue più l’obiettivo della separazione per sottrazione di territorio allo Stato centrale, piuttosto sceglie la strada della immedesimazione in un paradigma. La Lega punta, attraverso i suoi esponenti più rappresentativi, a farsi modello nazionale di buon governo riproponendo specularmente lo schema di buona amministrazione dei territori. La significativa diversità del movimento rispetto al resto degli alleati sta proprio nell’aver curato, negli anni, la crescita di una classe di nuovi amministratori pubblici, per lo più giovani, preparati e nient’affatto rozzi come certe manifestazioni folkloristiche dei primi tempi tendevano a rappresentarli. Anche in questo caso i simboli estetici aiutano a interpretare il cambiamento. Le appariscenti camicie verdi lasciano il posto, nella frequentazione parlamentare e istituzionale, alle più discrete cravatte verdi e alle pochette in tinta a tono.
Nel cosiddetto decennio berlusconiano, durante il quale il Governo è stato nelle mani del leader di Forza Italia, tranne che per la parentesi 2006-2008 della sciagurata “Unione” di Romano Prodi, le performance dei ministri leghisti sono sostanzialmente positive. Probabilmente colui che resterà, più di ogni altro, nei cuori e nella memoria del popolo dei garantisti sarà il “duro” Roberto Castelli che, da ministro della Giustizia, riesce a varare la più importante riforma del sistema giudiziario che la Repubblica avesse conosciuto. La normativa precedente, infatti, sopravviveva dal gennaio del 1941. La nuova legge reca un tratto rivoluzionario nella violazione del tabù dell’intangibilità della funzione giurisdizionale. La novità è data dall’introduzione del principio di separazione delle funzioni tra magistratura inquirente e giudicante. Il leghista Castelli osa fare ciò che a nessun altro libertario riformista era riuscito. Lo scossone per l’ordine giudiziario è così forte che, il successivo governo di centrosinistra appena insediato nel 2006, provvede, con un ddl del nuovo ministro della Giustizia Clemente Mastella, a far cancellare dal Parlamento l’impianto della “Riforma Castelli” per tornare in tempi record allo spirito del precedente regime normativo. Quello del 1941. A disdoro di Prodi e di tutti i suoi accoliti va detto che l’abrogazione della “Legge Castelli” costituisce la prova regina, la “pistola fumante”, nel processo di accertamento della subalternità totale della sinistra ai diktat della corporazione dei magistrati.
Nel Gabinetto che si insedia all’apertura della XVI legislatura, la guida del ministero dell’Interno viene affidata all’altra punta del movimento: Roberto Maroni. Il giudizio positivo sul suo operato è abbastanza diffuso. La lotta alla criminalità organizzata, per Maroni, diviene una priorità dell’azione di Governo. C’è anche il contrasto alla piaga dell’immigrazione clandestina. La Lega di Governo si appropria dei temi della legalità e della difesa dei confini nazionali per farne due proprie bandiere ideologiche. La fede assoluta nel conseguimento della trasformazione in senso federalista dello Stato, diviene, nella retorica leghista, la ragione utilitaristica della permanenza al Governo, nonostante la sconfitta della riforma costituzionale del 2005. In realtà, dietro la volontà di restare all’interno delle logiche del potere si nasconde l’interesse prevalente ad avere il sostegno degli alleati, in particolare di Forza Italia, per continuare ad amministrare un buon numero di territori del Nord. La vocazione maggioritaria del partito delle origini, invece, si rivela una crudele utopia per le ambizioni dei “duri e puri” riuniti sotto l’effigie di Alberto da Giussano. Tuttavia, la Lega dovrà attendere le elezioni regionali del 2010, cioè nella fase terminale del decennio berlusconiano, per avere due suoi esponenti, Roberto Cota e Luca Zaia, alla guida, rispettivamente, del Piemonte e del Veneto. A costoro si aggiungerà, nel 2013, anche Roberto Maroni, eletto al vertice di “Regione Lombardia”.
Nonostante gli esiti sventurati dell’esperienza di Governo del centrodestra, la Lega trae il suo utile politico nel vedersi alla guida di quelle realtà che avrebbero dovuto costituire l’asse portante della macroregione del nord, pensata da Gianfranco Miglio. Non vi è dubbio alcuno che il movimento leghista abbia beneficiato della disponibilità prestata, oltre ogni misura, dal leader del centrodestra, Silvio Berlusconi. Quest’ultimo, a sua volta, ha assecondato il consolidarsi di uno schema tattico in base al quale alla meno diffusa articolazione di Forza Italia al Nord avrebbe fatto da contrappeso l’azione capillare del movimento leghista. A compensare il costo della minore incidenza locale del più grande partito della coalizione, che ritagliava per sé il ruolo di movimento vasto d’opinione, si conteggiava la totale devozione alla leadership personale di Berlusconi, in ambito governativo e parlamentare, dei rappresentanti della Lega-Nord.
Non si andrebbe lontani dalla verità se si affermasse che il patto politico che ha cementato la coalizione di Governo del centrodestra non fosse tra Forza Italia e Lega, bensì tra Berlusconi e Bossi. Il mitico “asse del Nord” traeva legittimazione dalla solidità di un rapporto personale, intimo, rafforzatosi negli anni, tra due uomini che dopo molto tempo si erano intesi e avevano deciso di mettere a disposizione della causa comune i rispettivi “carismi”, per fare qualcosa nella quale nessun altro avrebbe potuto mettere becco. Della solidità granitica di questa unione se ne resero ben presto conto, a loro spese, sia Pier Ferdinando Casini sia, due anni dopo, Gianfranco Fini. A prescindere dal dato umano del rapporto personalissimo tra i due leader, ciò che interviene a sostenere la qualità e la resistenza del “progetto settentrionale” è la presenza unificante, nel ruolo chiave di uomo-cerniera tra i due progetti politici, di Giulio Tremonti. Ma questa è un’altra storia. (fine seconda parte)
di Cristofaro Sola