mercoledì 9 aprile 2014
Novant’anni. Una settantina da giornalista-scrittore, fondatore di un settimanale (L’Espresso) e di un quotidiano (La Repubblica), che hanno raccontato la storia del giornalismo italiano dal dopoguerra e attraversato tutte le vicende politiche, economiche, sociali, culturali, religiose del Paese.
Eugenio Scalfari si è festeggiato scrivendo la sua “omelia” domenicale per la sua “creatura” preferita, guidata senza risparmio di energie per un ventennio (1976-1996) prima di lasciare le redini ad Ezio Mauro. Titolo tratto (“In povertà sua lieta sciala da gran signore) da una frase della Bohème per parlare di Renzi, delle misure economiche e delle elezioni europee. Poi due pagine a RCult e una pagina di auguri degli amici de La Repubblica e L’Espresso.
Un grande giornalista che però non ha più il dono della sintesi, avendo imboccato la strada delle meditazioni filosofiche: ha scritto “Interviste ai potenti”, “L’uomo che non credeva in Dio”, “Scuote l’anima mia Eros”, “La Passione dell’etica. Scritti 1963-2012”, “L’amore, la sfida, il destino” e infine “Dialogo con Papa Francesco”. Scalfari appare avulso dalla realtà che ha creato. La sua redazione non è più un concerto di idee e spinte ideologiche che avevano portato “Barbapapà” ad essere il fulcro di un giornalismo militante, autoreferenziale.
“Dovevamo essere i più bravi, i più informati, i più pagati, sempre in prima linea nelle notizie, nelle inchieste, nei retroscena dei resoconti parlamentari, sui movimenti sindacali”, soleva scherzarci su un cronista di prima fila come Franco Scottoni. Non la prese bene quando Miriam Mafai e la Bignardi accettarono di collaborare con il Tg3 di Sandro Curzi; fece il diavolo a quattro per far rimanere con lui Paolo Guzzanti e il suo amico socialista Lino Jannuzzi. Non parlò più a Gianpaolo Pansa, che da vicedirettore passò a fare il condirettore dell’Espresso dove era arrivato Claudio Rinaldi, suo acerrimo nemico.
Le tante contraddizioni evidenziano una personalità complessa, narcisista, creativa ma dalle grandi “cotte” politiche (prima il socialista Sandro Pertini, poi Ciriaco De Mita ritenuto in grado di modernizzare la politica) e dalle grandi odi, a partire dal socialista Bettino Craxi al democristiano Francesco Cossiga. Sul fronte economico-sociale, dopo il libro “Razza padrona. Storia della borghesia di Stato”, il suo orientamento si divide a metà: tutto il bene possibile per Carlo De Benedetti al quale vende le sue quote della casa editrice, tutto il male possibile e ancora di più per l’odiato imprenditore milanese Silvio Berlusconi che osava tentare, prima di scendere in campo in politica, di diventare il padrone dell’editoria scritta e televisiva. Parte da allora la ventennale guerra al Cavaliere - che ha avuto più successo di lui in politica (Scalfari è stato deputato socialista dal 1968 al 1972). Un affronto per Barbapapà che non aveva rifiutato le 150mila lire che gli passava, ogni settimana, il banchiere Raffaele Mattioli per un bollettino di notizie.
Per Scalfari ha contato molto l’eredità del padre Pietro, che dopo essere stato decorato al valor militare nella Prima guerra mondiale disertò per seguire Gabriele D’Annunzio nell’avventura di Fiume. Ha ricordato in un libro la sua “infatuazione giovanile per il fascismo” tanto che i suoi primi articoli furono pubblicati su “Roma fascista”, il periodico degli universitari (Guf) dove era in buona compagnia con altri studenti rampanti che passarono nel partito comunista, ben accolti da Palmiro Togliatti di ritorno dalla Russia. Alla vigilia dell’arrivo degli americani nella Capitale, il 5 giugno 1945, Scalfari conosce la Resistenza: viene aiutato dai gesuiti a riparare in Vaticano ma al Referendum istituzionale votò per la Monarchia. Grande in tutto. Basta leggere le 10 paginette al peperoncino che gli ha dedicato Gianpaolo Pansa nel libro “Tipi sinistri”, che descrive i gironi infernali della casta rossa sbattendo Eugenio tra i “bolliti”.
di Sergio Menicucci