Abbo e Accame nel mirino degli 007

giovedì 13 febbraio 2014


Dopo due anni la vicenda dei marò è ancora incagliata nelle acque della giustizia indiana, e solo oggi il ministro Bonino s’accorge che non esiste ancora un vero capo d’accusa. Intanto, L’Opinione continua a filtrare la vicenda attraverso la missiva dell’ammiraglio Falco Accame.

“Si è accennato alla questione che i marò sono stati lasciati soli nel decidere – scrive l’ammiraglio – e ciò in quanto l’infausta normativa esistente, Legge 130, esautora praticamente il comandante dall’intervenire in caso di attività anti-pirateria. D’altra parte, ordini di questo tipo per azioni in loco non possono essere emanati da chi sta a migliaia di chilometri di distanza (a Roma, Santa Rosa). Perché non può essere a conoscenza della situazione cinematica in atto: non si può vederla né a occhio nudo né sul radar. Ma nessuno si è preoccupato di protestare sull’aspetto dell’aver lasciato i marò senza un sostegno nella decisione. L’intervento in acque non internazionali andava evitato: ma è possibile che i marò non conoscessero la posizione geografica della nave. D’altra parte, a chi ha voluto effettuare controlli è stato risposto che il sistema Gps era in avaria. Inoltre non sono stati forniti i tracciati radar relativi allo sviluppo della situazione. Tali dati dovevano essere reperibili sui computer di bordo – sottolinea Accame – Un fatto di una gravità estrema, sul quale però, secondo quanto a conoscenza dello scrivente, nessuno ha indagato. A parte il fatto che il comandante avrebbe dovuto conoscere la posizione della nave, e indipendentemente dal Gps, effettuando i “punti astronomici” con l’uso del sestante. Sono evidenti le responsabilità a monte dell’operato dei due marò, che costituiscono un’ulteriore attenuante alla loro specifica responsabilità. Tra le responsabilità a monte vi è prima di tutto quella di aver affidato compiti di polizia militare marittima a personale del San Marco, che ha precipuamente compiti bellici nelle operazioni di sbarco: nelle quali, tra l’altro, il problema dell’individuazione del nemico non si pone, perché il nemico è preventivamente individuato. Mentre nel caso in specie si trattava prima di tutto di capire se il “nemico” potesse essere costituito da un innocentissimo peschereccio, assolutamente incapace di un’operazione d’assalto. Forse i due comandanti avrebbero potuto aiutare i marò nell’opera di qualificazione del natante, evitando che un peschereccio venisse confuso con una lancia d’attacco. Per quanto riguarda le operazioni di polizia marittima, anche se non di anti-pirateria, forse avrebbero dovuto interpellare i comandi dei carabinieri, della Guardia di Finanza, delle Capitanerie di Porto e magari del Consubim, La Spezia, sempre che si adottasse la scelta (a parere dello scrivente del tutto erronea, anche per via degli effetti collaterali che genera) di impiegare personale militare. Su alcune di queste questioni sarebbe opportuna una rilettura del rapporto dell’Ammiraglio Piroli, pubblicato in parte su La Repubblica il 6 e 7 aprile 2013. Circa la questione della definizione delle acque internazionali, il riferimento non può che essere fatto alla citata convenzione di Montego Bay (art. 99, ma vedi anche art. 86 e 87 e “Regime di alto mare”). Ribadisco che le acque contigue (lo dice del resto la parola stessa, come per il confetto Falqui) si chiamano contigue: se fosse altrimenti sarebbero denominate internazionali. Quanto alla giurisdizione e alle richieste indiane sulla giurisdizione, può essere utile tener conto di come si è comportata l’Italia in casi simili, e in cui vi sono state vittime italiane. Vedi il caso Calipari. Il marine Lozano sparò al posto di blocco per fermare la macchina. L’Italia chiese di giudicarlo perché Calipari era un cittadino italiano. Ma vedi anche il caso Abu Omar e in maniera più indiretta il caso Cermis. Per quanto riguarda l’affitto di militari – spiega Falco Accame – ritengo sia doveroso adottare la massima cautela, e per i motivi già illustrati, ma anche per evitare casi come quelli che si sono verificati recentemente su una nave da crociera: la Costa Atlantica, dove il comandante in sala comando ha fatto fotografare una persona amica con in braccio il mitra di un militare imbarcato. L’imbarco di scorte armate militari su navi da crociera mi sembra particolarmente problematico. Ritengo che, qualora si ritenga necessario dare sostegno ai nostri marò, si debba intervenire su tutte le attenuanti che possano essere individuate rispetto alle accuse mosse loro dalla Procura Militare Italiana (le accuse mosse da parte indiana non sono ancora state specificate). Il comandante Abbo nella sua perizia ne ha individuata una che a mio parere può essere sostenibile anche in un processo che abbia luogo in India. Nessuno purtroppo ha protestato per tutto quello che è accaduto nella catena decisionale a monte dell’azione di fuoco dei marò. Ho menzionato alcune delle altre attenuanti su cui si è completamente taciuto (evidentemente per coprire i responsabili). Tra queste gli errori nella Legge 130, gli errori nel tipo di armamento consentito (senza cannocchiale), il non aver avvertito i marò che la nave non si trovava in acque internazionali e che quindi l’azione non poteva essere intrapresa. Poi la non messa in funzione degli altri sistemi d’allarme preventivi, che doveva avvenire antecedentemente a qualsiasi azione a fuoco, non ultimo il non aiuto ai marò nella identificazione del bersaglio. Se vogliamo veramente dare un sostegno ai marò dobbiamo scaricarli da responsabilità che non sono loro pertinenti e individuare i responsabili con una severa e rigorosa autocritica. Tutto questo se non ci si vuole limitare a vuote azioni declamatorie – chiosa l’ammiraglio – che hanno tra i loro fini quello di evitare d’entrare nel merito di questioni che sono invece di grande rilevanza”.

Il resoconto dell’ammiraglio Accame è un documento di grande pregio. Lascia tuttavia intendere che la vicenda ha degli aspetti intrecciati, dietrologici, tipici dell’approccio italiano alle problematiche. In primo luogo emerge che non erano pubbliche le “regole di ingaggio nazionali antipirateria”. Se le regole d’ingaggio nazionali diventassero fonti aperte, si potrebbero definire quelle situazioni di eventuale errore, favorendo ulteriori attenuanti per i due marò. Le regole dovrebbero porre in evidenza il perché dell’ordine dell’ammiraglio Donato Marzano di ottemperare alla richiesta indiana dell’entrata in porto della Enrica Lexie. L’ammiraglio Marzano è l’attuale assistente personale dell’ammiraglio Binelli, capo di stato maggiore della difesa che all’epoca dei fatti era il “Cincnav”. Se, dopo il processo e il ritorno dei marò in Italia, si aprisse una doverosa inchiesta con relativa commissione, né l’ammiraglio Marzano né l’ammiraglio Binelli vi dovrebbero partecipare, e a causa dell’evidente conflitto di interessi. Infatti non dovrebbero né far parte della commissione inquirente né essere in grado di influenzarne gerarchicamente i membri.

Tuttavia i ben informati dicono che Marzano sarebbe prossimo alla promozione ad ammiraglio di squadra, e già nel corrente mese pronto ad andare a ricoprire l’incarico di “Cincnav”: quindi potenzialmente in grado d’insabbiare ogni elemento d’eventuale colpa sua e di Binelli. In molti si chiedono se non sarebbe il caso di frenare su certe promozioni. Marzano andrebbe a sostituire l’ammiraglio Foffi, che si dice sia in odore di nomina a nuovo direttore dei servizi segreti italiani per l’estero (Aise). Lo vuole una parte del Pd ed è spinto dall’ammiraglio Branciforte, che guidò servizi e Marina, proprio al tempo in cui vennero arrestati in India i due marò. Secondo indiscrezioni, tanto interesse all’Aise deriverebbe proprio dai fatti non chiariti nella vicenda marò. Si rammenta che l’ammiraglio Branciforte fu il deus ex machina della vicenda marò, e resta famosa la sua audizione in Parlamento per l’approvazione della legge antipirateria.

L’ammiraglio Branciforte è stato il primo direttore dell’Aise, aveva alle sue dipendenze il generale Alberto Manenti, che attualmente è numero due di Santini (in realtà il capo operativo dell’Aise). Si tratta di un nome molto noto nella “storia” (e nei retroscena) dell’intelligence degli ultimi vent’anni. Nel caso Telekom-Serbia, ad esempio, furono Italo Bocchino e Maurizio Gasparri ad avanzare i sospetti che dietro quell’operazione si fosse mosso l’allora Sismi: in particolare l’ottava divisione diretta proprio da Alberto Manenti. Ma anche nel caso Nigergate (i falsi dossier che avrebbero dovuto provare l’importazione di uranio dell’Iraq di Saddam Hussein) Manenti venne coinvolto in qualità di capo dell’unità “Armi di distruzione di massa”. Il suo nome è spuntato recentemente anche nelle carte dell’inchiesta Finmeccanica, citato da Lorenzo Borgogni (ex dominus delle relazioni esterne della multinazionale di Stato). Al di là delle sue “vicissitudini” professionali, Manenti è l’uomo che, più di molti altri, oggi ha in mano la “macchina” dell’Aise. Con Branciforte, Manenti era il capo dell’ottava divisione, ossia gli affari commerciali. Per affari commerciali dell’Aise s’intendono gli utilizzi di particolari fondi non soggetti a rendicontazione (fondi neri per intenderci), che giustificano i costi sostenuti per liberare cittadini italiani in mano a gruppi eversivi, d’irredentisti, terroristi o qualsivoglia milizia paramilitare, senza tuttavia pagare alcun riscatto.

Tuttavia l’ottava divisione nella vicenda marò (a fronte di circa 6 milioni di euro spesi) non è riuscita ad ottenere molto, se non a creare la forte azione di depistaggio, soprattutto le critiche ingiuriose nei confronti degli scritti dell’ammiraglio Accame e della perizia Abbo.

(seconda e ultima parte)


di Ruggiero Capone