Gli F-35 a “caccia” di certezze volanti

martedì 4 febbraio 2014


Ma insomma, volano o no questi F-35? È il dubbio amletico che toglie il sonno alle alte gerarchie civili e miltari dei Paesi coinvolti nel progetto “Joint Strike Fighter”. Il più importante programma d’investimento che i Paesi dell’area Nato potessero concepire in materia di potenziamento delle forze aeree d’attacco rischia di trasformarsi in un incubo per tutti i suoi estimatori e fautori. Allora, per volare volano però pare che nascondano un bel po’ di magagne. Ma procediamo con ordine. Il Lockheed Martin F-35 Lightning II è un cacciabombardiere supersonico multiruolo a tecnologia stealth per la bassa osservabilità radar-termica- acustica-visiva. Il programma di costruzione di questo velivolo di quinta generazione ha preso il via alla fine degli anni Novanta ed è stato affidato, per la sua realizzazione, al colosso americano degli armamenti Lockheed Martin in consorzio con la Boeing.

L’aeromobile è prodotto in tre versioni: F-35A - variante a decollo e atterraggio convenzionale (Ctol - Conventional takeoff and landing); F-35B - variante a decollo corto e atterraggio verticale (Stovl - Short take off vertical landing); F-35C - variante a catapulta per portaerei (CV- Carrier Variant). Attualmente il programma è ancora nella fase Lrip (Low-Rate Initial production), che prevede una produzione a basso ritmo per il completamento dei test di verifica dello sviluppo tecnico-operativo del velivolo. La previsione è che dal 2016 si passerà alla Frp (Full Rate Production), cioè tutte e tre le versioni andranno in produzione a pieno regime. Stime recenti indicano il costo ultimo dell’intero piano d’investimenti a quota 56 miliardi di dollari. I partner di primo livello del progetto sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.

Anche l’Italia è della partita. Con una quota di spesa iniziale di circa un miliardo di dollari il nostro Paese è considerato partner di secondo livello. In base alle ultime valutazioni del Ministero della Difesa, l’Italia sarebbe orientata ad acquistare, entro il 2027, per un costo complessivo di progetto di circa 12 miliardi di dollari, 90 velivoli, di cui 60 di tipo A e 30 di tipo B da dividere tra l’Aeronautica e la forza aeronavale della Marina militare. Gli F-35 B a decollo corto sarebbero gli unici in circolazione compatibili con le esigenze operative della nostra miniportaerei “Cavour”, nella prospettiva di sostituzione dei vecchi Harrier che da decenni dànno ottima prova ma ormai sono considerati obsoleti dal punto di vista delle tecnologie impiegate.

Come ha spiegato il direttore generale degli armamenti aeronautici, ispettore generale Domenico Esposito, con una colorita espressione, “siamo entrati in una cooperativa” che ci consente di comprare gli aerei che ci occorrono con un notevole sconto sul prezzo di listino e, poi, di ricavarci un po’ di utili contribuendo, con una nostra azienda, alla costruzione di parti della macchina nonché alla futura manutenzione dei modelli prodotti e venduti. Com’è noto nel nostro Paese l’opposizione di sinistra si è sempre battuta per un annullamento del programma, sostenendo che per quello che costano gli aerei si potrebbe sfamare la popolazione di un intero Paese africano o mettere su non so quanti asili nido, come se gli asili nido da soli potessero servire da deterrente per la pace e la sicurezza del nostro Paese.

Il fatto è che dietro questo pacifismo a senso unico si nasconde, come sempre, il desiderio d’indebolire l’Italia dei suoi mezzi di difesa rendendolo un Paese esposto alla mercè di chiunque voglia provare a fare la voce grossa. Ciò risulta francamente inaccettabile. Dunque, bisogna farsene una ragione: come invecchiano gli uomini anche le macchine invecchiano. Il nostro apparato di difesa aerea, che finora ha retto egregiamente, è destinato nel volgere dei prossimi anni ad essere smobilitato. Tra il 2017 e il 2027 tutta l’attuale flotta formata da 250 aeromobili finirà la sua vita operativa. Toccherà prima agli Harrier, entro il 2025 saranno richiamati tutti i Tornado ancora in servizio. In ultimo toccherà agli Eurofighter Thyphoon.

I militari sostengono che se tutti i governi succedutisi negli ultimi diciotto anni non avessero confermato la scelta di aderire al mega programma Joint Strike Fighter, oggi, con la crisi economica che stiamo attraversando, con le ristrettezze sempre maggiori del bilancio statale che impone continui tagli alla spesa, l’Italia rischierebbe di restare senza copertura aerea giacché comprare una macchina “chiavi in mano” costa un occhio e noi quell’occhio da perdere non l’abbiamo. E non vorremmo finire di nuovo a noleggiare aerei come successe quando si trattò di sostituire i decrepiti F-104 Starfighter. Una politica miope sugli investimenti ci fece trovare sguarniti di difesa aerea per cui fummo costretti “braghe in mano” a prendere a nolo i Tornado Adv per difendere i cieli italiani durante la guerra civile in Bosnia-Erzegovina nel 1992.

Poi, per fronteggiare i ritardi nella consegna degli “Eurofighter”, abbiamo dovuto affittare dagli americani 34 F-16, gli ultimi dei quali sono stati in servizio fino al 2012. Dal punto di vista finanziario si è trattato di un bagno di sangue per le nostre già magre casse statali. Inoltre, il fatto di avere a disposizione macchine così versatili e tanto avanzate dal punto di vista delle tecnologie impiegate, consente ai nostri alti comandi di programmare una sostanziale riduzione del numero di velivoli operativi rispetto al passato. Il fabbisogno aereo della Difesa, infatti, è stimato intorno ai 140/150 aeromobili, a pieno regime. Poi c’è la questione dello stabilimento piemontese di Cameri dove ha sede la Faco (Final Assembly and Check Out). Per la direzione generale degli armamenti aeronautici si tratta del vero punto di forza della partecipazione italiana al progetto. Per gli alti papaveri dell’Aeronautica rappresenta un sogno a occhi aperti.

L’idea è che quando la fabbrica sarà ultimata potrà diventare il solo hangar in Europa abilitato alla manutenzione degli F- 35 operativi. La Faco è di proprietà dello Stato. Per questa ragione, il lavoro che vi verrà prodotto costituirà un valore aggiunto per l’industria aeronautica italiana in termini di know-how e di alta tecnologia realizzata. La curva occupazionale si predispone a un forte rialzo visto che sono preventivati circa 10mila nuovi posti di lavoro. I piani operativi dicono che se le commesse verranno confermate, a Cameri toccherà di produrre 1.215 ali per un controvalore economico di 6 miliardi di dollari. La ricaduta economica sull’indotto dell’industria italiana è valutata in circa 18,6 miliardi di dollari. E di questi tempi sarebbero come manna dal cielo per le nostre imprese. Quindi, anche per questa non irrilevante ragione che stiamo nel programma Joint Strike Fighter. Come ha lapidariamente concluso il generale Esposito, nell’audizione parlamentare del 1 febbraio 2012: “Uscire dal progetto significa metterci una croce sopra”. E amen.

Dunque, le tesi sostenute dalla “Difesa” sono in sé ineccepibili. Solo uno sconsiderato potrebbe giudicare uno spreco di danaro pubblico dotare la nostra Aeronautica di nuove macchine aeromobili fornite di sistema d’arma avanzati. D’altro canto, anche la nostra forza navale vive lo stesso preoccupante problema del graduale avvicendamento delle unità che, progressivamente, verranno poste in disarmo. In un Paese che ha uno sviluppo costiero di 7458 chilometri, di aerei e navi che pattugliano le acque territoriali e contigue si avverte un insopprimibile bisogno. A maggior ragione in questo periodo di tempo nel quale il quadrante strategico del Mediterraneo è ritornato ad essere ad alto rischio dopo gli eventi che hanno interessato la regione costiera del Nord Africa e il Medioriente, dall’esplosione della cosiddetta “primavera araba” in poi. Tuttavia, la sequela di inconvenienti e false partenze che hanno caratterizzato la prima fase del progetto di costruzione degli F-35 desta non poche perplessità. È pur vero che la decisione di rinunciare per ragioni di risparmio alla costruzione preliminare di prototipi su cui sperimentare tutti i possibili elementi di criticità, ha prodotto dirette conseguenze sui velivoli approntati per la fase operativa dei test Lrip.

Allora è accaduto di verificare che le carlinghe reagivano male alle scariche elettriche dei fulmini, poi è stata la volta della ridotta visibilità dello spazio posteriore all’aeromobile, dei problemi di scambio d’informazione tra il pilota e il software, della proiezione dei dati nel casco, del cattivo funzionamento del sistema radar e, all’inizio dello scorso anno, della “frattura” in una delle pale della turbina del reattore che, se portata alla rottura, potrebbe danneggiare direttamente il motore. Per questa ragione i comandi aerei americani hanno disposto, nei primi giorni del 2013, un temporaneo fermo dei velivoli già operativi per provvedere alle indispensabili revisioni e modifiche. Un rapporto del Pentagono sul programma F-35 ha evidenziato diverse centinaia di punti di criticità nel processo di produzione dell’aeromobile. Ma c’è dell’altro.

I piloti che lo hanno provato sostengono che non si tratti di quel capolavoro pubblicizzato dall’industria costruttrice. Ci sarebbero seri problemi alla manovrabilità della macchina nelle fasi di combattimento aereo. L’ F-35 sarebbe poco reattivo in fase di virate e di accelerazione e sarebbe stato valutato dagli esperti complessivamente inferiore, dal punto di vista delle prestazioni, al modello concorrente di fabbricazione russa, il caccia di quarta generazione avanzata “Sukhoi Su- 35S”. Rispetto a quest’ultimo, l’F-35 avrebbe minore autonomia di volo, maggiore peso della macchina, minore velocità, minore raggio d’azione e minore potenza di fuoco per i combattimenti ravvicinati. Come se non bastasse, una stroncatura radicale sulla qualità del progetto viene direttamente dagli Stati Uniti. La notizia è di questi giorni. In un report al Congresso Usa, il direttore della sezione test operativi e valutazione del dipartimento della Difesa, Michael Gilmore, mette in discussione la maturità dell’intero programma, giungendo ad affermare che i Paesi, tra cui l’Italia, che hanno fatto totale affidamento sull’utilizzo a breve dei velivoli prenotati “debbano trovarsi a considerare la necessità di utilizzare altri velivoli, almeno per un certo lasso di tempo, per ovviare ai buchi di disponibilità operativa che ci saranno”.

La sentenza contenuta nel rapporto pare essere senza appello: “Le performance riguardanti l’operatività complessiva continuano ad essere immature e si basano fortemente su supporti e soluzioni proposte dall’industria che sono inaccettabili per operazioni di combattimento. La disponibilità di velivoli e le misure di affidabilità dei tassi di manutenzione sono tutte sotto gli obiettivi che il Programma si era dato per questo punto del proprio sviluppo”. Ora, se è vero che questi “gioielli” costeranno mediamente all’Italia 80 milioni di euro ciascuno, sarebbe opportuno che anche il nostro ministero della Difesa, in qualtà di committente, facesse sentire la sua voce con i costruttori e con i partner di Oltreoceano perché se è vero che il programma potrebbe portare grandi vantaggi alla nostra industria, è altrettanto vero che trovarsi, alla fine della fiera, ad aver speso una montagna di quattrini per dei mezzi che non valgono il loro costo sarebbe, per il nostro disastrato Paese, un colpo micidiale. Bisogna tenere conto che, dopo anni di silenzio, anche la Ue si è fatta sentire sulla questione della politica di sicurezza e di difesa comunitaria, ponendo l’accento, nel documento conclusivo dell’ultimo Consiglio Europeo dello scorso dicembre, sulla necessità di rafforzare l’industria europea della difesa.

Tradotto: La Ue intende impegnare direttamente risorse finanziarie per sostenere l’implementazione di una base industriale e tecnologica “autoctona”, nel comparto della Difesa. S’intende, dunque, promuovere un’integrazione effettiva delle capacità realizzative presenti sul suolo continentale per favorire progetti industriali che facciano restare “i quattrini in famiglia”, piuttosto che continuare a darne ai colossi degli armamenti d’Oltreoceano. Sarà quindi difficile per il Governo italiano pensare di andare a pararsi, per l’investimento effettuato con gli americani, contando sulle risorse comunitarie. D’altro canto, bisogna aprire bene gli occhi perché gli investimenti europei non è che siano più economici. Al contrario, se si valuta lo sforzo italiano fatto per la realizzazione del caccia “Eurofighter”, che finora è costato all’Italia una spesa di circa 21 miliardi di euro, l’investimento preventivato per gli F-35 sembrerebbe un affarone. Inoltre ci sono i costi operativi, che per il Thyphoon sono saliti a 40mila euro per ora di volo, contro i pronosticati 24mila dollari dell’F-35.

C’è poi un aspetto tecnico fondamentale che rende i due velivoli imparagonabili: il primo, l’Eurofighter Thyphoon è stato progettato per la difesa aerea, il secondo, l’F-35, è concepito per gli attacchi al suolo. C’è anche un ritorno industriale da considerare. Per ogni 100 euro incassati sugli Eurofighter prodotti, 79 vanno alla Germania, alla Spagna e all’Inghilterra, gli altri 21 all’Italia. Nel progetto Joint Strike Fighter, rispetto all’ammontare ad oggi investito dal nostro Paese, circa 2 miliardi di dollari, 600 milioni sono tornati in contratti alle nostre imprese. Conclusione: la situazione si è di molto complicata e, obiettivamente, non se ne può fare colpa ai nostri governanti. Tuttavia, occorre che il ministero della Difesa intervenga a chiarire, con dati reali e senza menzogne e omissioni, lo stato dell’arte. Chiunque abbia sale in zucca sa che investire in sicurezza e apparati di difesa per un Paese esposto come l’Italia è più che un bene, è una necessità. Ciò non toglie che non ci si debba impiccare a scelte sconvenienti, se non del tutto perdenti.

Oggi si è ancora in tempo per valutare con serietà l’effettivo impatto di tutte le anomalie rilevate nella costruzione sulla efficacia d’impiego del velivolo in combattimento. Comprare dagli americani ci sta. È una vita che lo facciamo. Tuttavia non è un dogma, non lo si deve fare a qualunque costo. Non ci si deve buttare a testa in giù sapendo di rompersela. Serve una dose di prudenza mescolata a tanto buon senso. Per questo motivo tirare un attimo il respiro e riflettere prima di staccare altri assegni potrebbe farci solo bene. Questo Governo mediocre si è finora distinto per i tanti pasticci compiuti, una vota tanto si procurasse di fare qualcosa di buono. Noi tutti, oppositori in servizio permanente, sapremmo cavallerescamente dargliene merito.


di Cristofaro Sola