martedì 28 gennaio 2014
L’arma umana per resistere di fronte ad una tragedia come la Shoah è la memoria. La memoria, ovviamente, appartiene per primo a chi è travolto dall’evento: essa mette in atto le strategie con cui poter difendere la persona dall’annientamento della sua dignità umana. La memoria, fin dal suo stato embrionale, si dà il compito di raccontare ad altri qualche cosa di unico di cui si è stati testimoni. Il fine del raccontare le memorie è forse dire e diffondere l’indicibile, per esorcizzare la paura e per difendere, come ultimo tentativo, la dignità propria e del genere umano. È accaduto talora che chi custodisce la memoria è paradossalmente riluttante alla sua diffusione. Perché innanzitutto è lui per primo a non volere credere a ciò che gli è capitato.
Nello sterminio nazista, scientificamente si puntava ad eliminare soprattutto i bambini per colpire la continuità e il futuro. È nell’infanzia più veloce e spontanea la costruzione e la conservazione della memoria. Chi non è finito nelle camere a gas o comunque ha portato via la pelle dai campi di sterminio ha dovuto cancellare quella parte più atroce della memoria, sia per poter sopravvivere al dolore sia, credo, per non essere drammaticamente deriso dall’incredulità di chi lo ascoltava. Per questo nella giornata della memoria abbiamo ancora tanto da conoscere e riflettere. È nostro compito indagare e scoprire le dimensioni del male. Hannah Arendt scriveva che “quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile”.
Nella Shoah il male ha superato l’impossibile, ma noi siamo sicuri di aver compreso quel che è successo? Ci è stata consegnata la memoria, ne facciamo un buon uso o la tiriamo fuori solo nelle cerimonie? Se la Shoah è un unicum e non può essere paragonata forse a nessun altro orrore della storia, non può neanche ridursi per la realpolitik alla celebrazione di memorie archiviate. Molti politici delle democrazie occidentali hanno trattato e trattano con le dittature di mezzo mondo colpevoli di aver ucciso decine di migliaia di persone. A cosa serve la memoria se oggi si fa la fila per andare in Iran a stringere le mani del potere criminale? Nell’estate 1988 in Iran in poche settimane impiccarono decine di migliaia di prigionieri politici.
Molti di coloro che parteciparono a quel genocidio hanno fatto carriera nei governi di Rafsanjani, Khatami, Ahmadinejad e nell’ultimo di Rouhani. Sia i cosiddetti oltranzisti che i cosiddetti riformisti parteciparono attivamente alle eliminazioni di massa della dissidenza. Secondo la fatwa di Khomeini si dovevano eliminare tutti i prigionieri politici che non abiuravano il loro passato.
Si formò la commissione dell’“amnistia”, chiamata dai prigionieri politici “commissione della morte”. Ne faceva parte anche Mostafa Pour-Mohammadi, attuale ministro della giustizia del governo Rouhani. L’intenzione non era solo dare un colpo decisivo alla dissidenza politica dichiarata, ma diffondere il terrore nella società in modo da paralizzarla ed operare una metamorfosi in ogni strato sociale. Sul macabro gioco delle cifre dell’eccidio, vista la natura ermetica del regime, non si può essere esatti; comunque si stima che, nella tragica estate dell’88, furono uccisi più di 33mila oppositori.
C’è una domanda che da decenni non mi abbandona: molti politici di oggi, nella Germania del Terzo Reich, da quale parte si sarebbero messi? Del resto tutto un popolo seguiva il Führer, e anche il Duce riempiva le piazze. Ogni volta penso di essere estremamente fortunato di non aver dovuto passare la prova di stringere o no la mano al Führer o al Duce. Nello stesso tempo non mi do pace di vedere gli uomini e le donne dei governi democratici stringere le mani grondanti di sangue del regime di Teheran. Vogliono rendere possibile l’impossibile. Prima Pistelli, D’Alema e Bonino hanno assolto i loro compiti andando in visita in Iran, ora lo sta facendo l’ex presidente della fondazione dalemiana “Italiani Europei”, nonché attuale ministro del Governo italiano, Bray.
Abbiamo tutti ancora bisogno di recuperare e riflettere sulla memoria. Heinrich Himmler si recava in visita di ispezione al campo di sterminio di Auschwitz con lo stesso spirito di un turista che si metteva in viaggio, ed era solito scrivere alla moglie - oltre 700 lettere - firmando: “Vado ad Auschwitz. Baci, il tuo Heini”.
di Esmail Mohades