giovedì 23 gennaio 2014
Da diversi anni è stata messa sotto accusa la macchina della politica, la sua lentezza, la sua confusione, i suoi sprechi, la sua incapacità di decidere. Sotto accusa sono finiti elementi strutturali costituzionali come il parlamentarismo, il bicameralismo, la rete delle istituzioni locali. È finita sotto accusa anche la parificazione tra Stato centrale ed enti locali, la famosa modifica del Titolo V, voluta dalla sinistra in un momento di ubriacatura federalista. A questi difetti la riforma costituzionale, denominata sbrigativamente devolution, del 2005, aveva posto rimedio.
Aveva ridotto il numero dei parlamentari, introdotto un senato regionale, eliminato in gran parte il bicameralismo, diviso i poteri chiaramente tra Stato e Regioni, garantito la stabilità attraverso il premierato. La si volle chiamare devolution per sottolinearne lo spirito reazionario e l’uscita ideologica dal viale del progresso. Eppure, quello che fu l’acme del profilo leghista, restituiva, dal bailamme tuttora vigente, allo Stato funzioni chiare e precise. Ad otto anni di distanza, quella riforma, nelle sue impostazioni di fondo, ritorna sugli scudi, proposta e difesa dai suoi avversari del 2005. Le proposte del neo-segretario del Pd, Matteo Renzi (stop al bicameralismo e costituzione di un Senato composto da consiglieri regionali), riprendono in parte la devolution ed imporrebbero ad anime libere di chiedersi chi ha fatto perdere all’Italia otto anni e perché.
Per altra parte, la riforma elettorale proposta dal fiorentino, in nome della governabilità, riprende elementi della riforma del 2005 e della legge elettorale precedente, il cosiddetto Porcellum. In otto anni il Pd, girando molte volte attorno a sé in asse orizzontale e verticale, alla furiosa e intellettuale caccia della scoperta dell’acqua calda, l’ha finalmente trovata; e ha deciso che il miglior programma di riforma era quello dell’avversario. Finora la cronaca narra di un deciso e convinto mea culpa sull’obbrobrio di riforma federalista, fatta contro i federalisti, del Titolo V della Costituzione.
Attendiamoci a breve un altro miserere sulla mancata riforma del 2005. Il progetto della nuova legge elettorale concordato tra Pd e FI, o meglio tra Renzi e Berlusconi, partiva dalle suggestioni dei sistemi spagnolo, tedesco e francese ed ha finito per mescolarli tutti insieme, mischiando alto sbarramento d’ingresso, piccoli collegi con liste bloccate corte, alto premio di maggioranza, doppio turno. Se si inserisce l’elemento Usa delle Primarie, si completa una tela ricavata da pezze di tessuto e colore diversi, che è stata chiamata con grande dignità Italicum. Una forte e decisa confusione mentale, che dopo aver declamato e reclamato la fine del Porcellum, alla fine ci torna.
Qui però non interessa tanto il Pd, quanto la disonestà dell’insieme accademico-mediatico-burocratico, avviluppato in carta-plastica detta etica, che nei decenni ha definito truffa ogni maggioritario, che ha vilipeso prima le preferenze, considerate il verminaio mafioso utilizzato da cattivi politici come Giolitti, i Dc ed i socialisti dell’ultimo periodo, che poi ha invocato la Consulta fino all’esasperazione perché fossero ripristinate. Questo insieme di amati fatti e travagli ha deriso devolution ed il Porcellum quando all’estero le preferenze non vengono di norma utilizzate, mentre sono abitudine secolare sia le liste bloccate che i premi maggioritari.
Ha infangato gli eletti suggerendo che fossero nominati, come se i politici non fossero, non siano e non saranno, qui ed in ogni Paese democratico, altro che cooptati, continuamente messi alla prova con chi, dal basso e dall’alto, li ha scelti. Ha contestato l’assenza delle preferenze come vulnus democratico quando a suo tempo la meteora politica Segni jr inaugurò il passaggio dal sistema proporzionale a diverse varianti di maggioritario, proprio scagliandosi contro le preferenze. Ha esaltato, in un Paese che vota due volte l’anno, l’introduzione di elezioni di massa privatistiche senza avvedersi che il rito di massa svuotava i dibattiti e l’essenza dei congressi.
Ha contestato a sangue la legge elettorale (come ogni norma decisa dai Governi Berlusconi, d’altronde) solo per far credere al pubblico che le vittorie elettorali dell’uomo di Arcore fossero falsate da brogli e regole ad hoc, preparate a tavolino. Ha contestato la senescenza degli eletti, poi la carenza di presenza femminile, poi la presenza di elette troppo femmine fino ad invocare eletti omo e trans, per poi pentirsene. In questi giorni ha poi dimostrato di non avere orrore per se stesso nemmeno quando sparge fango o oro sulle stesse identiche proposte, a seconda di chi le fa.
Gran parte dell’inclito elettorale (e l’etico Giacchetti) gli ha voluto credere ed oggi che ha un Parlamento pieno zeppo di donne e di giovani che si baloccano con i 100 nomi della Tares, con leggi improbabili come la Web Tax, con gli annosi dibattiti sulle spese militari, si mette le mani nei capelli. La disonestà del blocco buro-accademico-mediatico non è però campata in aria, ma ha origini chiare, che stanno nella stessa Costituzione. Questa venne elaborata da un personale politico, in gran parte reduce da un lungo esilio che era soprattutto spaventato da nuove ondate populistiche di massa decisioniste.
Così produsse un sistema fatto apposta per non decidere, per allungare i tempi, per non mettere mai nessuna forza veramente in minoranza, per incitare eletti ed elettori a frazionarsi sotto la comoda copertura del proporzionale spinto. Ai vincitori non dispiacque che la nuova Italia avesse un motore perennemente in folle, salvo l’etero-gestione delle scelte più importanti. Re di maggio ed i repubblicani degli anti-La Malfa ci misero il carico da undici con la novità dell’assoluta indipendenza togata dai ministeri. I disonesti immaginavano un grande sistema centrista, dove si estorcevano i voti di un indirizzo per poi manipolarli in senso opposto, nella più grande liquidità della non decisione.
Se il Pd proseguirà sulla via della governabilità, ne avrà dei pezzi della Costituzione da buttare in soffitta. Alla fine del percorso però avrà distrutto anche la sua stessa origine, scoprendo che i padri costituenti come il famoso re della favola, erano in realtà nudi. Alla fine della corsa, il blitz renziano potrebbe scoprire che, di fronte a 1,5 milioni di posti di lavoro persi nella crisi, il tema della legge elettorale non era veramente così importante. Anche se l’occasione ha offerto salutari mea culpa, sommersi da un plauso usum renzini.
di Giuseppe Mele