giovedì 9 gennaio 2014
Fra meno di due mesi saranno trascorsi due anni dal momento che lo Stato italiano ha ceduto sovranità e delegato all’India la facoltà di esercitare un’azione penale nei confronti di due militari italiani per ipotesi di reato collegati al loro compito istituzionale e per le quali l’ordinamento indiano prevede la pena di morte. Due anni in cui l’Italia è stata sempre remissiva nei confronti di Delhi, rinunciando anche a ricorrere all’Arbitrato Internazionale.
Ieri è arrivato un ulteriore ceffone alla nostra sovranità: l’India ha ancora una volta rimandato il processo al prossimo 30 gennaio dopo che l’Italia ha estradato per tre volte in quel Paese i due cittadini italiani. Rispettivamente, il 18 febbraio 2012, il 7 gennaio 2013 e il 22 marzo 2013. Barattati per non urtare la “suscettibilità indiana” e compromettere interessi economici italiani, come è dato da capire dalle parole del Presidente del Consiglio, Mario Monti, il 27 marzo del 2013 in Parlamento. Il 22 marzo dello scorso anno la terza estradizione. I due fucilieri della Marina, in Italia per un “permesso elettorale”, vengono fatti rientrare in India. Un provvedimento che sconfessava la decisione presa dieci giorni prima dal Governo quando l’11 marzo veniva comunicato ufficialmente che i due non sarebbero stati più rimandati a Delhi.
Una scelta condivisa dal capo dell’Esecutivo, come si evince dall’Agenzia Agi delle 17,53 dell’11 settembre, che riferiva una precisa dichiarazione dell’allora sottosegretario agli Esteri, Staffan de Mistura: “La decisione di non far rientrare i marò in India è stata presa in coordinamento stretto con il Presidente del Consiglio Mario Monti e d’accordo con tutti i ministri”. Il Premier decideva invece di far rientrare Massimiliano e Salvatore in India, consegnando due cittadini italiani nelle mani della giustizia indiana, potenzialmente in diritto di applicare nei loro confronti la pena di morte, atto in contrasto con la Costituzione e con il Codice Penale italiano. Una scelta in verità giustificata da un documento sottoscritto dall’India per un impegno di non applicare la pena capitale, dimenticando però che si trattava di un atto irrilevante ai fini dell’estradizione, come ben specificato in una sentenza della Suprema Corte (n. 223 del 27 giugno 1996).
Il ministro della Difesa, ammiraglio Giampaolo Di Paola, condivise la scelta. Fedele alle più antiche tradizioni marinaresche confermò in Parlamento di non “abbandonare la nave” rappresentata da un Governo ormai dimissionario. Dimenticò, però, di precisare che poteva comunque disporre di una zattera di salvataggio che lo avrebbe condotto in porti sicuri, come è avvenuto in questi giorni. Notizia recente, infatti, ci informa che Di Paola è in procinto di collaborare con Finmeccanica, la società che ha in corso la nota controversia con l’India per la fornitura di elicotteri. Solo una consulenza, per ora, ma la situazione potrebbe velocemente mutare nel corso del 2014.
Una collaborazione che apparentemente rispetta la norma di incompatibilità per i ministri a ricoprire per un anno dalla fine del mandato cariche in strutture collegabili al pregresso incarico istituzionale, vincolo comunque destinato a scadere a breve, il prossimo 27 aprile. Di Paola non farà parte almeno per il momento dell’organico di Finmeccanica, ma la sua consulenza è lecito supporre che tratterà materia già nota come ex ministro della Difesa e come già segretario generale della Difesa e direttore nazionale degli Armamenti (Dna).
I nostri ragazzi sono ancora in India e sempre di più assumono il ruolo di merce di scambio per un vero e proprio baratto voluto per ammorbidire le posizioni indiane nei confronti delle realtà industriali italiane. Un atto esecrabile che si pensava cancellato dalla storia dopo la fine della schiavitù. Ripeterlo per tentare di ottenere garanzie sul piano economico è eticamente ripugnante. Assecondarlo nel tentativo di garantirsi posizioni personali è assolutamente nauseante.
di Fernando Termentini