Ingiusta giustizia, ecco le cause

venerdì 20 dicembre 2013


Chi pun­tasse il riflet­tore sul sistema Ita­lia non farebbe fatica a vedere che il Bel Paese, ben­ché abbia una Costi­tu­zione (che un tale in vena di face­zie ha defi­nito “la più bella del mondo”) è un arci­pe­lago di ano­ma­lie, ad elen­care le quali non baste­rebbe lo spa­zio di un arti­colo: qui per­ciò mi limito a riflet­tere sulle non poche ano­ma­lie del sistema giudiziario. Siamo il Paese nel cui voca­bo­la­rio non vi è trac­cia del ter­mine “respon­sa­bi­lità”, forse per­ché da noi non ha mai preso allog­gio ed è per que­sto che gli ita­liani non ne cono­scono il pieno signi­fi­cato, eppure è la regola prima della demo­cra­zia: il potere è eser­ci­tato per delega del popolo al quale per­tanto biso­gna ren­dere conto.

Qual­che mil­len­nio fa Eschine, ora­tore poli­tico ate­niese, avver­sa­rio di Demo­stene ammo­niva: chiun­que eser­citi un potere pub­blico è tenuto a rispon­derne (il ter­mine “respon­sa­bi­lità” deriva, però, da quello latino respon­dere). Qual­che mil­len­nio più tardi, Mon­te­squieu teo­riz­zava la sepa­ra­zione dei poteri dello Stato: sic­come si sa per eterna espe­rienza che chiun­que eser­cita un potere è por­tato ad abu­sarne, biso­gna orga­niz­zare lo Stato in modo “che il potere arre­sti il potere” (Mon­te­squieu, “Lo spi­rito delle leggi”). La sepa­ra­zione dei poteri sta­tali postu­lava, allo stesso tempo, la respon­sa­bi­lità dei poteri sepa­rati. Era la fine del potere asso­luto, di quel tipo di potere, cioè, che faceva dire a Luigi XIV: “Lo Stato sono io” (era detto Re Sole appunto per­ché tutto il regno girava intorno a lui). Sor­geva, quindi, lo Stato di diritto, che sta a fon­da­mento del costi­tu­zio­na­li­smo moderno occi­den­tale (da noi però vige, non lo Stato di diritto, ma lo Stato dei “dritti”).

Ho voluto ricor­dare i due prin­cipi – respon­sa­bi­lità per l’esercizio del potere e sepa­ra­zione dei poteri sta­tali – per dire che il nostro sistema giu­di­zia­rio ne è lon­tano, ed è per­ciò ano­malo. Infatti, come è risa­puto, il potere giu­di­zia­rio gesti­sce una pote­stà sovrana (ammi­ni­stra la giu­sti­zia in nome del popolo), ma al popolo non ne rende conto; e per di più, essendo dotato di pre­ro­ga­tive sovrane (auto­no­mia e indi­pen­denza asso­luta da ogni altro potere), è sot­tratto ad ogni forma esterna di con­trollo demo­cra­tico. L’onorevole Luigi Preti alla Costi­tuente definì peri­co­lose le pre­ro­ga­tive all’ordine della magi­stra­tura buro­cra­tica: con­fi­gura – disse – “uno Stato nello Stato o, quanto meno, una casta chiusa, intoccabile”. Un tale potere non esi­ste in nes­sun Paese: basti scor­rere le Costi­tu­zioni euro­pee per con­vin­cer­sene. In Inghil­terra – la più antica demo­cra­zia – i giu­dici della Corona (cioè quelli che hanno la più alta com­pe­tenza), sono nomi­nati con la clau­sola during good beha­vior, fin­ché ope­rino bene. E pos­sono subire l’impea­ch­ment e, quindi, la desti­tu­zione. Da noi un tale sistema è impen­sa­bile, per cui un qual­siasi magi­strato può fare il bello e il cat­tivo tempo, può creare lo scom­pi­glio nel sistema poli­tico senza subire con­se­guenze, nep­pure in sede disciplinare. I nostri Costi­tuenti, ecces­si­va­mente con­di­zio­nati dalla pre­gressa espe­rienza fasci­sta, s’illusero che le pre­ro­ga­tive asse­gnate al corpo buro­cra­tico della magi­stra­tura costi­tuis­sero le colonne por­tanti di un baluardo capace di evi­tare il pre­va­ri­care del potere ese­cu­tivo sulla fun­zione giu­ri­sdi­zio­nale (ma è acca­duto che la magi­stra­tura, diven­tata un super potere, pre­va­rica i poteri legit­ti­mati dalle urne).

Que­sta nega­tiva pecu­lia­rità del potere giu­di­zia­rio – irre­spon­sa­bi­lità e incon­trol­la­bi­lità – è aggra­vata da un’altra con­no­ta­zione ano­mala (però non adde­bi­ta­bile ai Costi­tuenti), vale a dire la con­cen­tra­zione di potere “forte”, quale è l’unione orga­nica di giu­dici e pub­blici mini­steri (organi della giu­ri­sdi­zione e organi del potere ese­cu­tivo, costi­tuiti presso tri­bu­nali e corti). Al peg­gio non c’è fine: abbiamo dal 1946 la “via ita­liana al pub­blico mini­stero”, cioè un pub­blico uffi­ciale ace­falo, che non dipende da chic­ches­sia (a somi­glianza della Pro­kura sovie­tica). Fu Pal­miro Togliatti, all’epoca mini­stro di Giu­sti­zia, l’autore del misfatto o, per meglio dire, l’autore del colpo di mano: pro­fit­tando del fatto che all’epoca i mini­stri tira­vano cia­scuno l’acqua al pro­prio mulino, come ricordò Costan­tino Mor­tari, grande costi­tu­zio­na­li­sta, fece fir­mare al Re – due giorni prima che il refe­ren­dum deci­desse la fine della monar­chia! – il regio decreto legi­sla­tivo con le garan­zie per la magistratura. Que­sta “via ita­liana al pub­blico mini­stero”, a ben riflet­tere, è una ano­ma­lia grave e scon­cer­tante, che non ha eguale al mondo. Invero: a) sot­trae la poli­tica cri­mi­nale alla natu­rale com­pe­tenza del potere poli­tico, diven­tando, di fatto, fun­zione esclu­siva di buro­crati (i Pro­cu­ra­tori della Repub­blica), irre­spon­sa­bili e per di più pro­fes­sio­nal­mente e poli­ti­ca­mente ina­de­guati a svolgerla; b) l’indipendenza asso­luta del pub­blico mini­stero fa di que­sto uffi­cio un potere auto­cra­tico e, quindi, poten­zial­mente arbi­tra­rio (affermò Pier­ca­millo Davigo, pub­blico mini­stero a Milano durante la rivo­lu­zione giu­di­zia­ria ed ora giu­dice alla Corte Suprema di Cas­sa­zione: pos­siamo “rivol­tare l’Italia come un cal­zino”). Aveva ragione Gio­vanni Fal­cone nel rite­nere che “in man­canza di con­trolli isti­tu­zio­nali sull’attività del pm, saranno sem­pre più gravi i peri­coli che influenze infor­mali e cen­tri occulti di potere pos­sano influen­zare tale atti­vità” (al Con­ve­gno di Sini­gal­lia del feb­braio 1990, sull’obbligatorietà dell’azione penale, poi in “Il giu­sto pro­cesso”, 1990, pag. 167); c) l’indipendenza del pub­blico mini­stero è all’origine del dele­te­rio feno­meno – pret­ta­mente ita­liano – della poli­ti­ciz­za­zione della magi­stra­tura, la quale ha perso per ciò la sua pecu­liare con­no­ta­zione di potere neu­trale rispetto la lotta poli­tica, con rispet­tiva per­dita di fidu­cia della col­let­ti­vità nella giustizia.

È vero che la Costi­tu­zione man­tenne la deci­sione di Togliatti, ma solo tran­si­to­ria­mente, cioè fino al chia­ri­mento della figura del pub­blico mini­stero, all’epoca ibrida, avente anche qual­che fun­zione di giu­dice (VII dispo­si­zione tran­si­to­ria); però in Ita­lia le disci­pline tran­si­to­rie hanno durata biblica e rischiano di dive­nire defi­ni­tive: si è dovuto atten­dere vent’anni per sapere che il pub­blico mini­stero è mera “parte” del pro­cesso, senza alcuna fun­zione giu­ri­sdi­zio­nale e, quindi, distinto e distante dal giu­dice. Ma qui si è avuto il secondo colpo di mano – que­sta volta da parte di magi­strati che for­ma­vano la mag­gio­ranza della Com­mis­sione mini­ste­riale inca­ri­cata di ade­guare l’ordinamento giu­di­zia­rio al nuovo modello pro­ces­suale; venne man­te­nuto, infatti, il pub­blico mini­stero “parte” unito orga­ni­ca­mente al giu­dice “super ­par­tes” (la via ita­liana al pub­blico mini­stero). Quei magi­strati fecero pre­va­lere una esi­genza cor­po­ra­tiva – “l’unione che fa la forza” – con­tro la Costi­tu­zione e la legge delega, a bene­fi­cio della loro corporazione. Oggi è nell’agenda poli­tica la riforma della giu­sti­zia, ma stia­mone certi che non se ne farà niente, oppure si farà una riforma gat­to­par­de­sca: tutto cambi, per­ché tutto resti inva­riato. Que­sto per­ché a sini­stra c’è l’interesse a man­te­nere l’attuale assetto giu­di­zia­rio, stru­men­tale al suo potere, a destra manca una pre­cisa visione di come deve essere rea­liz­zato il cambiamento. Per­tanto biso­gna che gli ita­liani desi­stano dall’aspettare la manna dal cielo e pro­get­tino il modo e gli stru­menti per costruire una giu­sti­zia più giu­sta, al passo di tutte le demo­cra­zia non di facciata. (con­ti­nua)

 

Tratto da zonadifrontiera.org


di Marsilio