I Vanzina al di sopra di ogni sospetto

martedì 10 dicembre 2013


Anche quest’anno, malgrado l’annuncio troppo anticipato, il cine-panettone ci sarà, perpetrando la tradizione della commedia leggera. Tra qualche lustro il genere verrà esaltato come già successo ai film, super prodotti seriali, di Ciccio e Franco come a quelli di Totò. Per ora restano la condanna ed il disprezzo per la volgarità e la risata grassa. Sul genere, dominante dai tempi di “Vacanze di Natale” (1983), piovono sempre fango e denaro: dai 20 milioni di un tempo ai 50 delle catinelle solari di Checco Zalone, non stroncato dalla critica solo per le sua nascita pugliese-sinistrorsa.

Nel 2011, caduto il Cavaliere, l’isterismo collettivo volle vedere a tutti i costi la fine del filone, umiliato da incassi sotto i 2 milioni, per poter declamare demenzialmente la morte di un’improbabile cultura berlusconiana, raccontata e descritta ad usum Rosso Delphini. In realtà. come avviene da settant’anni, l’industria cinematografica non ha alternative ai cine-panettoni, cine-colombe e cine-cocomeri, in una parola, alla commedia, per andare avanti, mancandogli le corde per altri generi di largo consumo come horror, bellico e giallo-poliziesco. Da sempre dominatrice del genere è la famiglia romana dei Vanzina, dal padre Steno, con Totò, ai figli Carlo ed Enrico con De Sica junior. Le società International Video 80 e Video 80 del duo Vanzina hanno fatturato 5 milioni, migliorando di quasi un milione l’anno precedente.

I volti dei due fratelli, che sembrano richiamare voci e modelli usciti dal cilindro del demenziale “Alto Gradimento” radiofonico, esprimono, sine verbis, sagacia e sarcasmo, che fuori dalla Capitale, farebbero autocritica, ma che a Roma si fa rassegnata, evidente e molle presa per i fondelli dell’universo mondo. In effetti in una dorata rassegnazione sembra fare il suo mestiere Carlo, che dei due è regista, quando dice: “In una cinematografia seria come quella americana, noi Vanzina saremmo venerati come Spielberg. Qui dobbiamo vergognarci”. La considerazione non è priva di senso, poiché le buffonate da noi divengono cosa seria ed i gusti, democraticamente maggioritari, dei consumatori una stupidaggine.

In effetti in una cinematografia seria, per fare il cine-panettone, si saccheggerebbero le scenette di vita vera presso le file degli accorsi ai gazebo delle finte elezioni delle primarie Pd. Anni fa anche Carlo si cimentò in una film impegnato, affrontando in “Tre colonne in cronaca” (1990) le vicende della lotta per la conquista dell’editoria italiana, in particolare la guerra micidiale di Segrate per l’aggiudicazione dell’ex impero Mondadori e di Repubblica. La storia degli ultimi decenni è stata, nella cinematografia, più volte raccontata, sempre riportata, con poche varianti, con i soliti buoni ed i soliti cattivi. I primi, impersonati dai progressisti e dintorni, i secondi da democristiani, socialisti, fascisti e berlusconiani.

Anche in quest’opera, il mondo della finanza e della politica ha un volto orribile, capace di coprirsi di ogni nefandezza, ma accanto a questo elemento topico, il film illumina anche l’area opposta, quella dell’ambiente interno dei senza macchia del giornale di opposizione, oggetto di scalata. L’occhio di bue scava nella redazione del Grande Giornale del Grande Direttore, normalmente auto-raccontato ed autoincensato, e vi trova altrettanta, se non più, forza, caparbietà, vigliaccheria, cattiveria, cinismo e violenza, rispetto al campo malvagio della politica di maggioranza e del capitale da profitto.

A sottolineatura del tutto, protagonista nel film, e assassino finale, è Gianmaria Volonté, attore cult che dopo avere prestato il suo volto al commissario criptofascista ed ad un ipocrita Moro (quando era in vita), indossa i panni dello Scalfari, grande direttore freddo e distante, non più di tanto toccato dall’infelicità dei suoi cari. A ricatto contrappone ricatto, a omicidio, omicidio e quando pare che debba subire la sconfitta, resta in sella grazie a insperate amicizie dei salotti bene, non venendo sfiorato dalle indagini di giornalisti e poliziotti.

Il film prendeva le mosse dallo strano romanzo, dal titolo omonimo, pubblicato nell’87 per Mondadori dai coniugi Augias, entrambi firme di Repubblica. Ritratto dall’interno del giornale, rinominato L’Opinione, attraverso il direttore Oscar Maria Bellomini, cioè Scalfari, gli editori Petroni cioè i Formenton, gestori di la Mondadori dopo la morte di Arnoldo, il libro era uscito nell’87 quando moriva il presidente Formenton, marito di Cristina Mondadori ed era un’evidente spaccato scritto da ben informati su timori e speranze nutriti dentro il quotidiano.

Ci si attendeva l’irrompere di Berlusconi ed il consolidamento di De Benedetti avvenuti nell’88, i trionfi del primo e del secondo del ’90. All’epoca “Donat” Augias e consorte Daniela, figlia del n.182 della lista Mitrokhin (Pasti, ex vicecomandante supremo europeo Nato e senatore Pci) erano alle prese con la facile previsione, sulla incombente rivoluzione di velluto ceca dell’89 con cui crollò il governo comunista con il quale i due avevano collaborato. Erano momenti convulsi in cui i tradizionali partigiani del mondo sovietico e dintorni, in via di dissoluzione, erano atterriti dall’idea di dover subire un’ondata epurativa, senza aver chiaro quali santi in paradiso fossero loro rimasti.

Ecco che da sorprendenti vacinatori della guerra Mondadori, senza nemmeno chiarire la scelta di campo, mostravano un’inaspettata conoscenza di intenzioni, punti deboli, strategie e scheletri. I recensori preoccupati ridussero quello che era quasi un salvacondotto in libreria, all’effetto di divertimento o di minimo fastidio. Quando uscì il film il clima si era tranquillizzato, senza alcuna epurazione, con tanto di lodo Andreotti-Ciarrapico operativo.

Eppure, imbarazzata, la critica, proseguendo il depistaggio, presente in romanzo e film, negherà in entrambi identificazioni, intimità e tic dell’ambiente Repubblica ed etichetterà come assurda l’idea che il grande direttore potesse essere colpevole di un delitto. Addirittura evidenzierà il cattivo gusto dei cine-produttori Vanzina, cimentatisi su un tema così vicino al padrone; per poi assolverli per l’autocensura dimostrata, che non aveva partorito truciderie, senza soluzione del giallo, italianamente assolutorio e senza eccessi autosatirici offerti dai giornalisti di Repubblica (tradotto, non troppo accusatorio verso il grande giornale).

Tre misere colonne in cronaca così finì per meritarle non la guerra di Segrate ma l’interpretazione alternativa dei fatti fatta dai Vanzina, usando materiale messo in giro dall’altro campo in un momento di debolezza. Capita l’antifona, il duo romano tornò alla commedia ed al suo mondo, sempre sotto ogni sospetto, accusa e vergogna. Con una certa rassegnata, evidente e molle presa per i fondelli per l’altro mondo, quello, sempre al di sopra di ogni sospetto, anche di fronte all’evidenza che è stata ed a quella che il futuro ci racconterà.


di Giuseppe Mele