mercoledì 13 novembre 2013
Il canone Rai dovrebbe aumentare di 6 euro a partire dal 1 gennaio del 2014. Un emendamento alla legge di stabilità proposto da Pd e Pdl, “al fine di assicurare le risorse spettanti all’emittenza radiotelevisiva locale”, da far affluire “ad un apposito fondo di sostegno economico all’emittenza televisiva locale costituito presso il ministero dello Sviluppo economico, nel quale sono riversate le somme già previste a bilancio”.
La regola prima è chiedere soldi ai cittadini, per il resto nulla cambia. Da sempre la radio e la televisione pubblica è governata dai partiti (chi più chi meno a seconda dei risultati elettorali), meglio dai capi dei partiti che nominano i loro vassalli giornalisti. In un tale sistema le vecchie e nuove fazioni hanno buon gioco a demolire l’altra parte, lasciando la realtà sempre uguale a se stessa con la sola variante anagrafica. A chi muore si sostituisce un soggetto più giovane, ma della stessa materia politica del morto.
Il risultato è palese a tutti: destra e sinistra, vecchi e giovani, occupati e disoccupati, ricchi e poveri sono sempre gli stessi La produzione comunicativa risulta uguale o spesso peggiore, dove presentatori di provata fede rilanciano sempre gli stessi slogan: “l’assenza dello Stato”, “ci hanno tolto il futuro”, “lasciamo lavorare i magistrati”, “liberiamo Roma”, “aboliamo la legge elettorale”, “il conflitto di interessi”, “le puttane nelle stanze del potere”, “rivolto l’Italia come un calzino”, “una svolta, un cambiamento”, “resistere, resistere, resistere”, “dopo il rigore la crescita”, “abbattere le disuguaglianze”, “i giovani sono senza lavoro”, “è una scelta di responsabilità verso il Paese”, “potevano votare per Rodotà (non si capisce perché)”, “non si può fare un Governo con gente impresentabile”, “non sono persone serie”, “cantiamo bella ciao”, “i muri con le scritte, i tazebao del popolo”, “le giuste rivendicazioni dei centri sociali (luoghi di elaborazione culturale) contro le vetrine dei negozi”, “puntare sull’innovazione e la ricerca”, “le teste pensanti emigrano all’estero”, “più donne in Parlamento e nel Governo”, “partire dal territorio”.
La somatizzazione dell’idiozia genera uno scontro eterno tra accuse reciproche, tra personale politico di diversa estrazione alla ricerca di un primato per diffamatori, accusatori e patetici difensori della parte offesa ora di destra ora di sinistra. I maestri formatori dell’opinione pubblica, giornalisti prêt-à-porter, ingessati nel rigore borghese del carattere sacramentale e oggettivo della loro informazione hanno inseguito la corsa al primato personale tra contendenti agguerriti e ospiti d’onore: Floris, Santoro, Travaglio, Annunziata, Fazio. Come pure i praticanti di Santoro: Formilli, la reginetta Beatrice Borromeo, la fiorettista Granbassi, la promossa in diretta Giulia Innocenzi (ex radicale) da passamicrofoni a commentatrice politica.
Mettono in scena una specie di dopo partita, una rivisitazione amplificata del “Processo del lunedì” dove si parla invece che di filosofia del calcio, di sesso a pagamento, di iscrizioni alle primarie, di mercato degli acquisti di deputati e senatori, di puttanieri e uomini casti, di discontinuità e continuità. Si dice è mancato un metodo di formazione e selezione della classe dirigente italiana. È vero? Chi avrebbe dovuto formare la classe dirigente italiana, e come? Si potrebbe anche sostenere che esistono personaggi all’altezza del compito, ma non vengono votati dagli elettori ed i partiti si guardano bene dal proporli. Sembra che migliorare la conoscenza e il grado di giudizio degli elettori sia decisivo per ottenere scelte di classe dirigente migliori e di maggior qualità.
Il risultato comporta di mettere sotto accusa gran parte dell’intero corpo dell’informazione, di porre una concorrenza tra i monopolisti di prima serata, tra i padroni delle trasmissioni di approfondimento politico, che non possono essere appannaggio di comici, cantanti, anziane ballerine (la Parietti), come pure di scontri personali e di facili ingiurie e offese alla reputazione personale. Una noia mortale, ma i figuranti applaudono, anche quando il raccomandato di turno tace e guarda nel vuoto fiero dell’atto eroico. Una parata cimiteriale, un defilè vagamente mortuario, di idiozie persecutorie, una redditizia lottizzazione della chiacchiera. Il pistolero con la pistola ad acqua è appagato, tronfio dell’applauso pagato a basso salario.
Il solidale che conduce lo protegge, volontariamente assume il ruolo di spalla, lo introduce magistralmente all’ascolto dei telespettatori, ignari del combinato siparietto. Discetta sui principi e sulle regole, cerca alleati tra politici da mercatini rionali, professionalmente analfabeti, cerca alleati tra i colleghi giornalisti di regime, di antica e giovane fama, che hanno praticato lunghe anticamere per lesinare un posto di prestigio, cerca alleati tra esperti fai-da-te, cerca alleati tra attori, cantanti, show-girl, ballerine a go go, passamicrofoni precari. È giunta l’Era di Monti (risaniamo la Rai), che ha nominato direttamente e indirettamente due che se ne intendono di numeri e di bilanci: presidente, Anna Maria Tarantola; direttore generale, Luigi Gubitosi.
Poi i partiti hanno fatto il resto nominando i consiglieri: Gherardo Colombo, Rodolfo De Laurentiis, Antonio Pilati, Marco Pinto, Guglielmo Rositani (consigliere anziano), Benedetta Tobagi, Luisa Todini, Antonio Verro. Recentemente a tutti è stata inviata una copia di un articolo de L’Opinione dal titolo: “Alla Rai: legalità, trasparenza, efficienza” del 26 ottobre scorso, dove si denunciava un dipendente Rai che, oltre a risultare sconosciuto per lo Stato italiano (non ha residenza, domicilio, dimora), viene protetto dall’azienda dietro lo scudo della legalità burocratica. Peraltro, con lettera del 18 giugno indirizzata alla Tarantola ed a Gubitosi, si segnalava che il dipendente utilizzava gli strumenti di lavoro – fax e telefono – per fini personali (peculato).
Silenzio totale. Al soggetto in questione deve essere semplicemente notificato un atto giudiziario e come sostiene la Corte di Cassazione la notifica può essere effettuata anche sul posto di lavoro. La Rai, con la connivenza della cosiddetta legge sulla privacy, ha negato le informazioni sul dipendente. Successivamente, per puro caso, si è saputo l’ufficio di appartenenza, la palazzina, il numero della stanza e la notifica è stata indirizzata all’ufficio del personale Rai di Saxa Rubra, proprio per evitare di mandare a vuoto l’ennesima notifica. Ma ancora una sorpresa: l’ufficiale giudiziario così relaziona: “non ho potuto notificare in quanto non ho rinvenuto il destinatario (non c’era nella stanza) né altre persone che abbiano accettato di ritirare l’atto. Interpellato l’ufficio del personale, il dirigente ha dichiarato che “l’ufficio non è autorizzato al ritiro, ma occorre rivolgersi alla direzione generale dell’ufficio del personale sito in viale Mazzini n. 14”.
La dizione esatta è “ufficio risorse umane e organizzazione”, lo stesso ufficio al quale erano state richieste notizie per notificare un atto giudiziario ad un proprio dipendente e che invece di rispondere correttamente di poter inviare l’atto a detto ufficio ha inopinatamente protetto il proprio dipendente (che da buon italiano si nasconde ai creditori), discettando sulla legge della privacy. Chi autorizza a non ritirare un atto? Chi autorizza a ritirare gli atti che giungono ad un’azienda e riguardano quelli che vi lavorano dall’usciere al presidente?
di Carlo Priolo