venerdì 25 ottobre 2013
Si scrive unità della destra e si legge balcanizzazione della destra. È questo ciò che avviene in queste ore dopo una serie interminabile di manifestazioni (Mirabello, Atreju, Orvieto, raduni regionali), una moltitudine di trattative, giochi tattici e strappi; il tutto per riuscire ad aggregare un arcipelago che alle ultime elezioni pare che contasse 9 partitini che in tutto raccoglievano neanche il 3%. La speranza è quella di scongelare il simbolo di Alleanza Nazionale, puntando sulla rendita in termini di voti aggiuntivi che esso porterebbe se esibito in una competizione elettorale.
Autoesclusi dall’operazione solo le “sorelle bandiera di Ignazio” (Fratelli d’Italia), che reputano con protervia di avere un consenso crescente nel Paese tale da non dover dividere le sorti con i “Fratelli Sfigati”. Sullo sfondo, a voler essere maligni (ma non lo saremo), il tentativo di utilizzare un vessillo sicuro, quello di An, utile a ripescare qualche trombato rimasto a bocca asciutta e tentare di concorrere in qualche modo alla gestione della ricca Fondazione Alleanza Nazionale, recuperando in extremis la fuga di consensi e di fondi. Nulla di male anche se l’operazione è diversa rispetto al nobile tentativo di far rivivere un ideale diventato minoritario dopo le glorie del recente passato.
Al netto delle cattiverie e partendo dalla buona fede degli attori in gioco, le domande che ci poniamo sono sostanziali e riguardano quella che potrebbe essere la possibile morte in culla di una destra nata su presupposti sbagliati. In primo luogo bisognerebbe sfatare il mito in base al quale c’è poca destra nel Paese: l’arcipelago è variegato e, forse, anche troppo assortito. La verità è che, contrariamente ai movimenti che vi si richiamano, non esistono politiche di destra. Come ebbe a dire Marcello Veneziani, la destra “non è morta d’identità ma di nientità, non è morta di estremismo ma di mediocrità. Non è morta di saluti romani ma d’imitazioni maldestre”.
Ecco, è proprio questo il nodo del problema: nell’ultimo ventennio la destra ha pensato a gestire il consenso, frequentare i salotti buoni non coltivando la propria idea di società e lasciando che la storia le scorresse addosso senza preoccuparsi di prospettare un modello di sviluppo, un sistema dei valori, una scala di priorità, un progetto di Nazione che rispondesse a canoni identitari capaci di connotare una corrente di pensiero che doveva evolversi e non perdersi. È questo che non comprende, ad esempio, Gianfranco Fini, il quale ritiene che il suo più grosso errore sia stato quello di autodistruggersi aderendo al Popolo della Libertà. Quando An entrò nel Pdl, la distruzione del partito era già avvenuta da un pezzo e l’appiattimento sulle tesi berlusconiane era il naturale approdo di un mondo che aveva ormai un vuoto di idealità da colmare.
Il suo partito si dedicava da tempo ad altro perché affetto da rampantismo, da voglia di sentirsi inserito nel sistema, di mostrarsi scaltro e con una malcelata “puzza sotto il naso” che spingeva a trattare con fastidio una comunità come fosse un bacino elettorale più che un popolo cui dare chiavi di lettura per interpretare da destra i cambiamenti sociali. L’arroccamento inconcludente degli onorevoli (con annesse spocchiose corti dei miracoli) che fino al giorno prima vedevi in sezione, se all’inizio ha provocato un certo disorientamento nel popolo militante, ben presto ha lasciato spazio alla delusione prima e alla rabbia poi.
Chiaro che poi gridare “che fai mi cacci?” è da intendersi come “fallo di frustrazione” di una classe dirigente incapace di “toccare palla” in tanti anni di governo non lasciando alcuna traccia caratterizzante del suo passaggio. Questo è proprio il secondo punto della questione: siamo sicuri che scongelare An equivalga a rifondare la destra? A ben vedere Alleanza Nazionale, nonostante costituisca il periodo più fulgido della destra in termini di consenso, è stato il momento più basso in termini ideali e programmatici per cui adottarla come simbolo della rinascita potrebbe essere un lapsus freudiano che indica una chiara divaricazione tra le intenzioni coscienti e le tendenze inconsce.
Il partito nato da Fiuggi non ha lasciato impronte, ricordi, un patrimonio ideale, una elaborazione concettuale. Nulla tranne il ricordo del correntismo (che pur era presente anche in altri soggetti politici) e il flashback agrodolce di una classe dirigente che, se da un lato ce l’ha fatta a sdoganarsi riscattando una comunità dopo anni di ingiusta emarginazione, dall’altro ha tradito le speranze e le aspettative per inadeguatezza conclamata. Rifondare la destra significa reinterpretarla in chiave moderna spogliandosi dei nostalgismi, del vecchiume folkloristico, del vacuo richiamo alla destra senza dire che diavolo significhi oggi, dei rancori e di una classe dirigente che cerca prepotentemente di non passare la mano (e non ci riferiamo solo ai colonnelli ma anche a qualche ex giovane caporale/caporalessa) a facce nuove in grado di prospettare uno schema credibile che sia in sintonia con una corrente di pensiero.
Una destra all’altezza dei tempi non può neanche scimmiottare l’esperienza francese perché quella di Marine Le Pen è la storia di un partito di opposizione che, contrariamente ad An, non doveva riscattare deludenti esperienze di Governo. Il Front National è oggi quello che era l’Msi–An nel ’93 per cui non si tratta di due storie confrontabili né tantomeno di modelli da scopiazzare, ma di esperienze da analizzare traendo un insegnamento che potrebbe essere il seguente: la destra ha successo quando, su certi temi cruciali, dice quello che pensa senza timori reverenziali. È arrivato quindi il momento di abbandonare il “copia e incolla” programmatico e le “operazioni nostalgia”, perché la sfida vera è regalare un sogno ad una comunità orfana di un ideale, disorientata e divisa in mille gruppuscoli rancorosi (a volte con il torcicollo), senza programmi, ostinatamente autoreferenziale o addirittura risucchiata dall’antipolitica.
C’è tutto un mondo che attende di sentirsi dire che una nuova casa esiste ed è una destra patriottica, nazionale, per la moralizzazione della spesa pubblica e non per l’assistenzialsocialismo, realista in tema di immigrazione (mai xenofoba) ma contro la demagogia esterofila, laica, presidenziale, tollerante ma non “sbracona” sui valori, liberale in economia ma non per questo meno sociale, contro lo statalismo “luogocomunista” perché non esiste il conflitto tra capitale e lavoro visto che entrambi sono parte del benessere collettivo, a favore di uno Stato che pensi più alla sicurezza e meno alla burocrazia delle carte bollate, contro il concetto di “Partite Iva = evasori” e di “dipendenti pubblici = parassiti” perché serve che lo Stato e la politica diano il buon esempio e regole certe prima di etichettare gli altri, per l’Europa delle patrie e non della tecnocrazia rigorista. Urge che terminino le operazioni di marketing e che qualcuno dica qualcosa di destra.
di Vito Massimano