La Costituzione urge di un ricostituente

martedì 15 ottobre 2013


La Costituzione di un popolo dev’essere la voce del popolo, non un atto notarile, freddo come un contratto di compravendita, o deve almeno conte¬nere un soffio spirituale che la animi e la sorregga, e che, possibilmente, faccia commuovere e inorgoglire gli animi. Al di là di queste prerogative, che non sembra di possedere, la nostra Carta presenta non poche inesattezze formali che, pur comprensibili per i tempi e l’urgenza in cui fu stilata, andrebbero eliminate.

 Nella Costituzione italiana la parola Italia ricorre solo due volte: nell’art. 1 (“L’Italia è una Repub¬blica”, dove repubblica richiedeva la r minuscola) e nell’art. 11 (“L’Italia ripudia la guerra”). Anche la parola Nazione ricorre due volte (articoli 9 e 67), mentre la parola Patria compare una sola volta (art. 52). Lo Stato compare sei volte. Per il resto dilaga la Repubblica. La quale, oltre che nell’art. 1, fa la sua comparsa nelle seguenti espressioni: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili” (2); “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro” (4); “La Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali” (5); “La Repubblica tutela le minoranze linguistiche” (6); “La Repub¬blica promuove lo sviluppo della cultura” (9); “La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano, verde, bianco e rosso” (12), dove sarebbe stato più corretto dire: “La bandiera della repubblica italia¬na è il tricolore verde, bianco e rosso”. In ogni caso l’aggettivo “italiano” non serviva, se per Repubblica s’intende la Repubblica italiana.

 La parola Repubblica segue poi negli articoli 29, 31, 32, 35, 37, 45, 47, sino all'articolo 114 e fra le disposizioni transitorie e finali (IX). Ma vi sono alcuni punti deboli proprio in quello che dovrebbe essere il fondamento della Costitu¬zione, cioè nella frase “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Primo: non è l’Italia ad essere una repubblica, è lo Stato italiano: l’Italia, infatti, può essere una “nazione”, una “penisola” “un’espressione geografica” (come ebbe a definirla Metternich), ma “l’Italia è una repubbli¬ca” non è corretto. Secondo: anche l’espressione che segue, “fondata sul lavoro”, non è esatta, per diversi mo¬tivi: primo, perché dire che l’Italia è fondata sul lavoro significa che tutti gli italiani sono tout court un popolo di lavoratori; secondo, perché, stando a quell’espressione (alquanto frettolosa, generica e sbrigativa, oltre che ammiccante), l’Italia, più che sul lavoro, sembrerebbe fondata sulla discriminazione: chi non lavora, infatti, dove lo mettiamo? L’espressione, dunque, è generica e giuridicamente priva di valore. E poi, di quale lavoro si tratta? Anche scrivere è un lavoro.

A meno che non si intenda come lavoro pure il pensiero, che per Gentile è atto puro, e allora in questo caso l’espressione sarebbe giusta, visto che anche i pazzi e gli imbecilli pensa¬no. Fra l’altro l’espressione “è una repubblica” è restrittiva perché ne andava dichiarata l’origine. Più che sul lavoro doveva essere fondata su altre cose, sugli ideali e sul sangue di chi, quella repubblica, l’aveva sognata, lottando per la sua realizzazione e provocando la caduta della monarchia. La natura repubblicana dello Stato italiano discende infatti da un referendum popolare, e perciò l’Assemblea Costituente non aveva il potere di decidere sulla forma repubblicana (dello Stato italiano).

 Non è una questione da poco. In definitiva l’espressione corretta dell’art. 1 sarebbe stata: “Lo Stato italia¬no è una repubblica democratica la cui sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Dopo, semmai, si poteva accennare al lavoro. Il quale, se da un lato è riconosciuto come un diritto, dall’altro è imposto come un dovere, visto che in uno stesso articolo (4), dopo aver definito il lavoro un “diritto”, la Carta dice che “ogni cittadino (ogni?) ha il dovere di svolgere un’attività o una funzione che concor¬ra al progresso materiale o spirituale della società”. Da ciò si ricava che un cittadino italiano non è li¬bero di non lavorare.

 Il lavoro è il fulcro intorno al quale ruota la repubblica italiana, anche sotto il profilo lessicale, visto che il “lavoro”, i “lavoratori” e le “lavoratrici” (quasi sempre in compagnia dei loro sacrosanti diritti) compaiono una quindicina di volte. E ciò rafforza il detto che “chi non lavora non mangia”. Sono tante nella nostra Costituzione le incertez¬ze semantiche relative a termini di grande spessore concettuale, come “Stato”, “sovranità”, “popolo”: il rapporto, cioè, fra sovranità del popolo e sovra¬nità dello Stato. La Costituzione, infatti, se da un lato proclama solennemente la sovranità popolare, dall’altro, in due articoli, rispettivamente il 7 e l’11 (anch’essi inclusi fra i princìpi fondamenta¬li), sembra riferirsi alla sovranità dello Stato, dove (art. 7) sottolinea la sovranità dello Stato e della Chiesa (“nel proprio ordine”), e dove (art. 11), par¬lando di “limitazioni di sovranità”, individua come soggetto di quest’ultima lo Stato italiano.

Si tratta insomma di capire se nella nascente “repubblica democratica” il vecchio principio assoluto della so¬vranità dello Stato sia stato superato dalla sovranità del popolo, o se le due sovranità coesistano. E veniamo all’articolo 3, oggi tanto citato e decan¬tato, il quale così recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di re¬ligione, di opinioni politiche, di condizioni perso¬nali e sociali”. Ebbene, Norberto Bobbio, non un cittadino qualunque, a questo proposito osservò: “Eguaglianza tra chi? Eguaglianza rispetto a che cosa?”. Anche questo è un punto da chiarire.

 “Una Costituzione, e massime una Costituzione rigida, dev’essere niente altro che un complesso di specifiche garanzie giuridiche degli individui e dei grup¬pi, oltre che un sistema di organizzazione dei pubblici poteri. In un tale documento ogni parola che non ab¬bia un significato giuridico, e cioè una efficacia imperativa e organizzativa palese, è sempre nociva, non foss'altro perché getta una luce di incertezza sull’intero documento e allarga a dismisura, pericolosamente, le possibilità dell’interprete. Se le condizioni non sono mature perché a una esigenza si possa corrispondere con concrete garanzie, meglio non occuparsene nella Costituzione, che non deve essere una antologia di buoni propositi, ma la spina dorsale di un concreto ordinamento giuridico” (Giuseppe Maranini, costituzionalista).


di Mario Scaffidi Abbate