martedì 1 ottobre 2013
Ancora una volta Silvio Berlusconi spiazza tutti, anche molti nel suo partito, e ha contro quasi tutti nei palazzi e nei salotti romani (nelle urne, si vedrà). No, non bluffava. Solo chi è molto ingenuo o propina scadente propaganda può davvero sostenere che il Cavaliere abbia aperto la crisi nel tentativo di evitare che si perfezioni la sua decadenza da senatore e di salvarsi dall'applicazione della sentenza di condanna che ne determina comunque l'incandidabilità per tre o sei anni. Certo, ha cercato di trattare sulla sua “agibilità politica”, ma sa bene che non sarà certo la crisi a ritardare la sua esclusione dalle istituzioni e il suo destino giudiziario.
Perché la crisi, dunque? E' certamente vero che la mossa è strettamente legata alle sue vicende personali (che qualcuno crede fondatamente abbiano a che fare con la democrazia), ma non nel modo banale che ci viene raccontato. Udite udite: nell'aprire questa crisi Berlusconi non ha alcuna convenienza personale. Ma il problema è proprio questo: è stato messo nelle condizioni di non avere nulla da perdere. E allora, perché assecondare i disegni dei suoi carnefici? Ancora una volta “L'arte della Guerra” di Sun Tzu si conferma compendio di saggezza senza tempo: accerchia il tuo nemico, ma lascia sempre una via di fuga, si batterà con meno ardore. Invece, un animale ferito e disperato, lotterà con tutte le sue forze e contro qualsiasi pronostico.
Chi ha deciso di non concedere nemmeno l'onore delle armi a Berlusconi, di accelerare una decadenza che sarebbe comunque sopraggiunta entro poche settimane, applicando una legge di dubbia costituzionalità e comunque funesta per la nostra democrazia, pur di purificarsi agli occhi del proprio elettorato, e di ignorare la questione giustizia per avere dalla sua parte i magistrati, unici in grado di togliere di mezzo l'avversario politico, ha messo nel conto, accettato, il rischio di questa crisi. E d'altronde, la situazione in cui è venuto a trovarsi Renzi – il Congresso che rischia di essere rinviato, l'ipotesi elezioni con Letta candidato, o un brutto governicchio da sostenere – rivela che le impronte digitali su questa crisi non sono solo quelle di Berlusconi. In tanti hanno tirato la corda.
Due erano gli elementi costitutivi di questo governo: una prospettiva di “pacificazione” e una svolta nella politica economica – senza abbandonare il rigore ma coniugandolo con riforme e tagli alla spesa pubblica e alla pressione fiscale per ridare fiato alla nostra economia. Ma proprio il presidente della Repubblica che nel discorso della sua rielezione sembrava perfettamente consapevole della necessità e urgenza di una pacificazione nazionale, nel momento più critico, quello seguito alla controversa condanna definitiva di Berlusconi (eventualità a cui certamente Napolitano era preparato), non ha saputo, o voluto, rilanciarla. Poteva farlo non necessariamente a scapito dell'applicazione della sentenza della Cassazione, aggirandola con provvedimenti di clemenza o leggi ad personam.
La via della pacificazione sarebbe potuta restare nell'alveo della politica, per esempio attraverso un percorso di riforme costituzionali più celere che portasse alla legittimazione reciproca tra avversari e che includesse anche il tema della giustizia. Non, quindi, un quarto grado di giudizio che assolvesse Berlusconi delegittimando clamorosamente la Cassazione, ma un atto politico che riconoscesse come anomalia da correggere l'accanimento giudiziario nei suoi confronti. Eppure, nemmeno una volta fatto fuori il suo avversario per via giudiziaria il Pd ha mostrato una disponibilità – nemmeno tattica – a mettere finalmente mano alla questione della giustizia ideologizzata e politicizza, che pure enormi danni sta infliggendo al Paese, anche in sfere diverse da quella strettamente politica (vedi il caso Riva/Ilva).
E nemmeno un gesto politico, magari nella forma di un messaggio alle Camere, è arrivato da Napolitano per incoraggiare i suoi “compagni”. Qualcosa che potesse, nonostante la sentenza di condanna di Berlusconi, rimettere in moto il processo di pacificazione che sembrava alla portata subito dopo la sua rielezione e la nascita del governo Letta. Da lì in poi, infatti, le larghe intese nate sotto il segno della pacificazione e della svolta economica si sono rivelate per quello che molti sospettavano: un'operazione di galleggiamento del “relitto Italia”, da una parte nell'attesa di mettere fuori gioco Berlusconi, che si compiesse la sua espulsione dalle istituzioni, dall'altra per ritardare il più possibile la candidatura alla premiership di Matteo Renzi.
In verità, già scorrendo la lista dei ministri del Pdl si poteva scorgere l'intenzione di dividere i “buoni”, disposti al momento opportuno a mollare il vecchio leader e a dar vita all'ennesima operazione centrista (nonostante quella appena fallita di Monti e Casini), da Berlusconi e i “cattivi”, che sarebbero stati abbandonati al loro destino. Ecco, quindi, che l'unico obiettivo del governo sembrava il tirare a campare, per dividere il centrodestra da un lato e sbarrare la strada a Renzi dall'altro. Dai tempi lunghissimi, e le procedure pletoriche, del processo di riforme concepito dal ministro Quagliariello, alle scelte chiave in politica economica continuamente rinviate, rateizzate, anche quando le coperture sembravano alla portata: l'Imu cancellata solo a metà e l'aumento dell'Iva rinviato di tre mesi in tre mesi (per poter scaricare la responsabilità della loro permanenza sul Pdl nel caso in cui avesse staccato la spina), per non parlare della spending review, delle dismissioni e dei costi standard.
Anzi, diversi sono stati i decreti di spesa, coperti con nuovi balzelli e accise, di cui anche i ministri Pdl sono stati complici, se non addirittura artefici. Altro che “fortino” e “sentinelle” anti-tasse! I ministri del Pdl in questi mesi hanno avallato, e fino all'ultimo dimostrato che avrebbero continuato ad avallare, qualsiasi nefandezza fiscale pur di tenere in vita il governo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è il pasticcio sull'Iva cucinato tra Saccomanni, Letta e i ministri Pdl, per cui l'aumento veniva rinviato di soli tre mesi aumentando però altre tasse (accise e acconti Ires/Irap). Per qualsiasi motivo e strategia Berlusconi abbia staccato la spina, nessun rimpianto per questo governo dei “Guardiani della Spesa”. Insomma, un film già visto: invece di battere Berlusconi nelle urne, da anni si tenta un “rassemblement” centrista e moderato dopo l'altro per isolarlo nei palazzi della politica. Poi, però, presto o tardi si torna al voto e dalle urne esce un centrino ambiguo e democristiano.
E' già capitato a Fini, Casini e Monti. Ora è il turno di Alfano? Il ruolo della sinistra e dei giornali dell'establishment è sempre lo stesso (è scritto a chiare lettere negli editoriali di oggi): allettare i dissidenti di turno (per poi abbandonarli a “funzione” svolta) con la prospettiva di un ambizioso progetto politico – niente meno che un Partito popolare finalmente europeo e liberale – mentre ciò a cui sono veramente interessati è un centro che isoli la destra, docile e remissivo, subalterno, da battere agevolmente o buono al massimo per un governo di coalizione. “Se volete esistere politicamente dopo Berlusconi – ripetono – questo è il momento di farsi avanti”. Può darsi, ma esistere come? Come Martinazzoli, Dini e Mastella? Operazione legittima, intendiamoci, com'è legittimo opporsi da parte di chi nel centrodestra ritiene di non voler morire democristiano. Sta di fatto che le scelte responsabili di Berlusconi a inizio legislatura – la rielezione di Napolitano e le larghe intese – sono state rivoltate contro di lui.
Anziché coglierla questa occasione, forse l'ultima, per una pacificazione, una legittimazione reciproca, come premessa per una politica finalmente capace di cambiare il paese, è stata buttata nel cesso, trasformandola nell'ennesimo tentativo di farlo fuori e dividere il centrodestra. Il che c'entra poco o nulla con i richiami alla “stabilità” e alla “responsabilità” di queste ore. In cosa consisterebbero moderazione e responsablità? Nel tenere in vita un governo che si preparava ad aumentare accise e acconti Ires/Irap pur di non trovare nella spesa pubblica il miliardo che serviva. Non in grado, dopo cinque mesi di vita, di muovere un solo passo per tagliare spesa e debito? La mossa di Berlusconi quindi fa chiarezza anche tra i suoi. Non è solo una questione di fedeltà/tradimento, sono in gioco diverse visioni di centrodestra.
Quella centrista delle cosiddette “colombe” a mio modo di vedere porta alla divisione del centrodestra e alla subalternità politica e culturale alla sinistra e al partito della spesa. E' vero però che nemmeno l'alternativa che sembra profilarsi con la nuova Forza Italia appare molto entusiasmante: sarebbe poco lungimirante e perdente se fosse una ridotta di “falchi” interessati a lucrare personalmente da un partito di mera resistenza, senza vocazione maggioritaria e di governo, incapace di recuperare credibilità.
Possibile che il centrodestra italiano sia condannato alla subalternità neo-democristiana o alla marginalità di un nostalgico “Msi” post-berlusconiano? La questione centrale è se questo paese abbia diritto ad avere una destra, o un centrodestra, nei cui confronti non vigano una demonizzazione e una persecuzione permanenti, da parte oltre che dagli avversari politici anche da poteri che dovrebbero essere neutrali se non neutri, o se invece sia condannato ad una non scelta tra una sinistra post-comunista e un centro democristiano trasformista, culturalmente subalterno.
di Federico Punzi