giovedì 26 settembre 2013
Un imputato di bancarotta che paga colpe e doli di altri, molto più in alto di lui, soprattutto banchieri, e che ciò nonostante accetta di risarcire integralmente le vittime del reato poteva legittimamente attendersi un sostanzioso sconto di pena in appello. Anche perché è la legge a imporlo. Ma in Italia, in certi frangenti, con buona pace delle certezze del nostro premier pro tempore Enrico Letta, lo stato di diritto non funziona. Anzi dall’inizio di “mani pulite” a oggi se possibile funziona ancora meno. Perché la legge si applica ad personam ai nemici, da Berlusconi in giù, e si interpreta sempre ad personam per i nemici.
E questo ormai vale tanto per il penale quanto per il civile. Sul versante del codice penale però quello che è stato fatto a Luigi Crespi assomiglia molto più a una coda vendicativa da parte della magistratura di Milano per stigmatizzare il suo passato che un atto di giustizia. Giustamente i suoi legali adesso vogliono ricorrere in Cassazione, ancora prima che nel merito, per fare rettificare quello che appare a tutti gli effetti un errore di forma. Anzi un vizio, come si dice nel gergo magistratese.
Perché la ratio è chiara: se tu non premi con uno sconto di pena, magari minimo se proprio l’imputato ti sta sullo stomaco, chi ha risarcito le vittime di una bancarotta come farai domani a convincere altri potenziali imprenditori rei di quello stesso reato a fidarsi di uno stato in nome del quale la giustizia si esercita e amministra con arbitrarietà? Per dirla in parole povere questa sentenza contiene un “quid” diseducativo, perché il messaggio implicito che manda suona più o meno così: “io non ti premio benché lo meriteresti solo perché tu per me rappresenti il nemico da abbattere”.
Crespi oggi paga per tutti come già tre anni orsono, ma stavolta viene anche umiliato: il proprio sforzo economico, enorme, sostenuto per risarcire le vittime di un reato che ben altri e a ben altri livelli hanno perpetrato, viene considerato meno che niente. Tanto la pena è stata calcolata al millimetro perché lui non possa fare un giorno di detenzione in più di quelli subiti a suo tempo come carcerazione preventiva.
Ma allo stesso tempo, una volta scongiurato un ennesimo ricorso alla Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) per ingiusta detenzione futura, i togati milanesi si sentono autorizzati a infliggergli tutto il disprezzo e il rancore che sembrano albergare in una certa parte della pubblica opinione contro chiunque abbia avuto a che fare con l’attuale leader del centro destra.
D’altronde grazie alla non separazione delle carriere non pochi dei pm protagonisti delle indagini degli anni ’90 oggi ce li ritroviamo tra i giudicanti in primo grado, in appello e magari anche nei collegi della Cassazione. Alcuni di loro oggi giudicano addirittura i risultati a lungo termine delle loro stesse inchieste. E’ questo lo stato di diritto che funziona premier Enrico Letta? Se lo tenga stretto.
di Dimitri Buffa