mercoledì 7 agosto 2013
I freddi (ma in alcuni casi necessari) dati dell'Istat, qualche giorno fa, hanno fatto emergere come il tasso di disoccupazione giovanile (fascia 15-24 anni) nel mese di giugno in aumento di 0,8 punti percentuali rispetto al mese precedente: in termini assoluti significa che l'incidenza dei disoccupati sul totale di quelli occupati (o in cerca) è pari al 39,1%. In termini pratici, in una prospettiva più «umanistica» e meno matematica, si traduce in 21 mila persone in meno a lavoro, per un totale di 414 mila occupati in meno. Questo indicatore rappresenta almeno due aspetti della nostra attuale situazione economica, per certi versi drammatica: i nuovi «talenti» da coltivare, fare crescere ed emergere sono da considerarsi - da sempre - la primaria fonte di vantaggio competitivo, non solo delle nostre imprese, ma più in generale delle eccellenze del Paese. Basti pensare alla esperienza di Adriano Olivetti che ha puntato molto sulla creazione di un moderno ed attuale modello di gestione aziendale che puntava a creare le condizioni per valorizzare l’intelligenza, di innovazione e promozione dei talenti delle persone, (in particolar modo dei giovani), in un contesto di forte spinta al rinnovamento sociale, e non solo industriale. Certamente un approccio precursore alle idee di «Corporate Social Responsability» (responsabilità sociale d'impresa) che nel segno della sussidiarietà – spesso con troppa fatica ed ostacoli - puntano a colmare le lacune di una modello socio-economico poco attento. In questo senso, le imprese italiane hanno sempre cercato di «eccellere» nella capacità di attrarre e di mantenere i cervelli in Italia, ponendo un freno alla loro fuga all'estero: seppur siano differenti le modalità adottate, molto in relazione alla dimensione aziendale, tutte molto efficaci. Le Piccole e Medie Imprese - che negli anni ottanta e novanta sono state modello di riferimento anche per i Paesi dell'Est (non possiamo non ricordare il nostro Italian Cluster, che dal Nord Est si è sviluppato oltre confine) - hanno sempre avuto il loro fulcro sulla capacità di sviluppare i talenti “dal basso”, richiamando una stretta collaborazione con impresa manifatturiera (artigianale o industriale) e scuole professionali. D'altro canto, nell'ultimo decennio, le grandi imprese (anche nazionali, come ad esempio quella di Unicredit o dell'ENI, diretta emanazione della filosofia di Enrico Mattei) si sono orientate verso la creazione di scuole di eccellenza interna, per consentire ai «talenti» di potersi esprimere e dare il massimo, ai massimi livelli manageriali. Le «Corporate Universities» sono tanto dei centri di specializzazione quanto dei «leadership accelerators» (ovvero stimolano non solo le capacità manageriali, ma anche quelle «politiche», in senso più ampio) e danno certamente un duplice vantaggio alla collettività: all'impresa, favorendo l'emersione dei migliori dirigenti; alla società poiché molti di questi, fuoriuscendo in cerca di nuove esperienze - forti di una competenza, non solo di base – contribuiscono all'innalzamento della cultura valoriale e manageriale. Modelli che oggi vengono definiti «il motore per il capitale umano», indispensabili e necessari in questo momento di cambiamento del modello sociale ed economico: infatti, secondo una recente ricerca della Boston Consulting Group (luglio 2013) la crescita economia sta ritornando a ruotare intorno all'uomo, «abbandonando» via via la centralità della finanza. Infatti, il vantaggio competitivo non risiede più nella capacità produttiva di macchinari ed impianti, ma si ritorna a puntare nella capacità delle persone di saper coniugare al meglio i fattori. In sostanza sembra delinearsi come nella «società postindustriale» la scarsità dei talenti sia principale sfida da dover fronteggiare...ancora una volta. Lo sforzo di chi oggi ha l'onere di governare (a tutti i livelli) è quello da un lato di avere anche una visione prospettica e lungimirante di un modello sociale ed economico integrato, e dall'altro di favorire le condizioni (tanto normative quanto di mercato) per alimentare questo meccanismo integrato tra “educazione” e “lavoro”, tanto nelle grandi quanto nelle piccole imprese. È lapalissiano che lo sviluppo non si può «creare» per decreto: ma è altrettanto vero che l'eccessiva pressione impositiva (fiscale, previdenziale, etc.) senza in cambio un «ritorno» in termini di produttività e di servizi, scoraggia l'intraprendere. Soprattutto comporta il taglio di quegli investimenti che non producono effetti immediati nel breve. Per assumere e formare un giovane, è necessario innanzitutto che vi siano clienti a cui vendere la produzione del magazzino (ricevendone il relativo corrispettivo finanziario, indispensabile a garantire il pagamento degli stipendi)... figuriamoci per farlo specializzare! Non ci servono nuove definizioni (ad esempio, dei NEET) per classificare nuovi e vecchi problemi, ma soluzioni attuali ed attuabili. Il canavese Adriano Olivetti, il trevigiano Giuseppe Toniolo, il marchigiano Enrico Mattei (e tanti altri dopo, alcuni dei quali ancora in vita) hanno dimostrato che con una tenace prospettiva di integrazione sociale ed economica, e puntando tutto su valori fondanti e saldi, si ottengono risultati significativi e duraturi. In primis, però, dobbiamo ritornare alla cultura del rispetto reciproco e della collaborazione (tipica della «provincia» italiana): tutti gli attori giocano un ruolo attivo ed importante, hanno pari dignità (abbandoniamo le accuse preconcette); tutti insieme spendano – oggi più che mai – ciascuno le proprie forze per garantire un risultato «produttivo» socialmente ed economicamente. Ne va della nostra quotidianità, ma soprattutto del nostro futuro.
di Manlio d'Agostino