Renzi, la Merkel e il provincialismo italiano

martedì 16 luglio 2013


Che squallido can-can quello che ha accompagnato la notizia della trasferta tedesca di Renzi in Germania. Quanta ipocrisia è colata dagli sbaffi della carta stampata. Quanti alti lai si sono levati dai prosceni di una politica teatrino. Renzi, con apprezzabile pragmatismo, ha fatto ciò che l’attuale collocazione italiana nell’ambito comunitario impone: in vista di una prossima discesa in campo, illustrare ai vertici europei le proprie intenzioni in caso di vittoria. Si dirà: ma i vertici UE sono a Bruxelles. Sbagliato. Sebbene a volte, come a Napoleone Bonaparte, anche a noi viene da dire: «Cos’è la storia se non una favola su cui ci si è messi d’accordo», la realtà poi ha ben altra polpa. E la sostanza è che l’Europa ha un suo vertice a Berlino e una sua leadership nella cancelleria tedesca. Perché due forze nel tempo hanno connotato, congiuntamente o alternativamente, il comando, essendo ad esso connaturate: il numero e la potenza dei cannoni, o la grandezza e la pesentezza del portafoglio.

Giacché il presente storico che sta vivendo il vecchio continente non è più quello della forza delle armi e degli eserciti schierati alle frontiere, anzi non essendoci più le frontiere, ciò che resta è la forza trainante dell’economia, tanto quella della produzione quanto quella della rendita finanziaria. La Germania della signora Merkel incarna questo primato che le conferisce ampio diritto d’indirizzo della politica europea, anche grazie al sostegno e alla sintonia con le democrazie del nord, da tempo impegnate a svolgere, nel quadro della politica europea, una funzione ancillare rispetto alle scelte dettate da Berlino. Renzi, quindi, ha reso pubblico ciò che tutti gli addetti ai lavori della politica italiana sanno bene e che nascondono all’opinione pubblica nostrana solo per eccesso di ipocrisia. Per Renzi, dunque, chapeau bas! D’altro canto, l’iniziativa del sindaco di Firenze incrocia un altro episodio recente, poco evidenziato dalla stampa italiana. In un’intervista rilasciata a Italia Oggi, Nigel Farage, leader dello Ukip, partito indipendentista britannico che lotta per l’uscita del Regno Unito dalla UE, europarlamentare co-presidente del Gruppo EFD (Europa della Democrazia e della Libertà) ha senza mezzi termini dichiarato che l’Italia non è più uno Stato sovrano ma una colonia della Germania.

Se noi italiani avessimo una diversa idea della politica, magari meno urlata e meno impastata di inappropriati luoghi comuni a sfondo pseudo patriottardo, dovremmo rispondere: caro Farage hai ragione. È proprio così, l’Italia, in quanto Stato, non ha più la pienezza della sovranità. L’ha ceduta, in tempi e in modalità diverse, man mano che avanzava il processo d’integrazione europea. Se ciò sia stato giusto o se si sia trattato di un colossale errore è presto per dirlo. Intanto, vi sono stati indubbiamente eventi più importanti e d’impatto rispetto ad altri, come, ad esempio, il varo della moneta unica e la contestuale revoca della moneta nazionale o l’apertura al mercato globale o la gestione della crisi libica, che hanno imposto al governo e all’apparato produttivo italiani comportamenti obbligati. Tali comportamenti hanno dato maggiore risalto al disagio psicologico derivante da un avvertito senso di perdita di peso specifico nello scenario internazionale. Gli studiosi della Dottrina dello Stato insegnano che le due caratteristiche che connotano l’autonomia statuale di una comunità sono la capacità di difendere in armi i propri confini e la potestà di battere moneta. Attualmente questa seconda attitudine è venuta a mancare in forza di un accordo sovranazionale che assegna tale potere a un diverso organismo a ciò legittimato. A corollario, si aggiunga che la politica di bilancio di uno Stato aderente alla zona Euro, non è più libera giacché deve rispondere a parametri di regolazione delle entrate e delle uscite stabiliti in sede europea, dai cui saldi nessun governo, di qualsiasi colore politico, può discostarsi senza subire le conseguenti sanzioni.

È questa una situazione sostenibile per noi italiani? Forse è l’unica domanda che avrebbe pieno diritto di cittadinanza in un contesto politico -teatrale, che evoca più verosimilmente le gags della commedia degli equivoci, che non il profilo tragico delle scelte epocali scandite dalle lancette della Storia. Da un po’ di tempo gira per l’Italia un’accorsata compagnia di economisti prestati ai salotti televisivi che sostiene, anche con alcune fondate ragioni, la necessità per l’Italia di uscire dall’Euro, di sfuggire alla morsa a tenaglia delle chele franco-germaniche, magari per tornare a fare l’Italietta bucolica degli spot anni ’60. È un’ipotesi, per di più legittima. Domanda: è verosimile che vi sia per un così piccolo paese un futuro produttivo competitivo in un contesto di mercato globalizzato nel quale grandi potenze possono opporre quantità di forza-lavoro, disponibilità di materie prime e risorse energetiche e finanziarie gigantesche rispetto a quellei che possono essere attivate dal nostro mercato domestico? Non sarebbe giunta l’ora di riconsiderare la dimensione di scala della comunità a cui intendiamo appartenere? Probabilmente l’Europa con i suoi numeri, con la consistenza del suo mercato interno, con la qualità del suo Know How ha forse qualche chance in più di farcela nella competizione giocata su base planetaria. E non guasterebbe ricordare che, al pari di altre potenze mondiali, l’Europa ha una tradizione millenaria di unità sotto le insegne e i simboli di due grandi imperi.

Quindi piuttosto che restare inermi e piagnucolosi di fronte all’ingrossamento della vena teutonica nell’ apparato circolatorio di questo grande e antico corpo che è l’Europa, sarebbe auspicabile che la nostra classe politica chiamasse a raccolta l’intera comunità per annunciare la fine della dimensione nazionale in favore di un’altra più grande e più ambisiosa idea di Stato. Alla cancelleria tedesca non si deve contestare il suo diritto alla leadership quanto il fatto che tale leadership debba essere esercitata a beneficio dell’intera comunità europea e non della sola parte tedesca. Alla signora Merkel si deve contestare la scarsa ampiezza del suo respiro politico, non il fatto che respiri. Se, al contrario, si pensa che l’Italia sia quell’ unicum nella Storia che può da sola reggere a qualsiasi trasformazione del sistema globale, senza minimamente perdere la sua identità, e la sua forza contrattuale, benissimo! Si abbia allora il coraggio di essere conseguenti. Si dica con chiarezza agli altri partners europei che, per quanto ci riguarda, the game is over, e finiamola qui. Quello, però, che non è più ammissibile accada è che noi si resti impantanati a metà del guado. Vittime predestinate di quella insopportabile furbizia, tutta nostrana, di voler sempre avere i piedi in quattro staffe. Piaccia o no, ci tocca fare una scelta di campo netta: o dentro, o fuori.

Se dentro, con la piena consapevolezza di accettare le regole del gioco condivise con gli altri; se fuori, avendo il coraggio di assumere sulle spalle del Paese la responsabilità del farcela da soli. Diversamente, sarà l’ incertezza per le mancate scelte a condurci in breve tempo alla rovina definitiva. Se stiamo al gioco è nostro dovere pretendere dagli attori del processo d’integrazione europeo che al più presto si condividano tutte le regole, non solo quelle che convengono ai paesi più forti. Troppo comodo. E anche la concorrenza sul mercato globale si attui sulla base di pari condizioni di partenza, senza che vi siano indebiti vantaggi competitivi per alcuni a danno di altri. Si spinga, allora, con decisione perché a un’unica moneta faccia da contraltare un’unica politica di bilancio e, possibilmente, un’unica politica fiscale. Che il tasso di sconto per il credito alle imprese e alle famiglie non sia condizionato oltre soglia dal peso del debito sovrano del proprio Stato di appartenenza. Che la spesa in armamenti sia di competenza europea di modo che il sistema di difesa, insieme alla politica estera, coincida con la dimensione territoriale dell’area UE.

Così come le politiche attive del lavoro, per essere davvero efficaci e colpire i target previsti devono avere necessariamente respiro europeo. Il mercato del lavoro domestico non riesce più ad assorbire la domanda occupazionale. E non possiamo puntare ancora sulla pubblica amministrazione per quadrare il conto. Lasciamo che i nostri figli si sentano cittadini d’Europa, smettendola una buona volta il solito piagnisteo da pargoli attaccati alle sottane di mamma. Se un giovane si fa strada, facendo valere le sue competenze e la sua professionalità, a Praga o a Londra, e non sotto il campanile del suo paesello, è un buo segno per l’intero sistema europeo. Non ha senso stare tutti a gemere perché l’Italia ha perduto un altro suo figlio, costretto dalla malasorte a emigrare all’estero. Bisogna una buona volta comprendere che la mobilità intraeuropea non è perdita d’identità, o sdradicamento. Oppure il nostro immaginario collettivo continua a considerare la Francia, piuttosto che la Finlandia, come estero? Allora l’Europa cos’è: terra incognita? Certo, se ancora oggi stiamo a dividerci per contrade: quelli del bruco contro quelli dell’oca. Se tanti ben pensanti credono ancora alla leggenda salvifica di un po’ di bottegai attaccati a un carroccio, dove pensiamo di andare? Chissà, forse anche per questo non si riesce ad abrogare le province, perché non è stato ancora cancellato il provincialismo dal carattere degli italiani.


di Cristofaro Sola