mercoledì 10 luglio 2013
Spesso i magistrati sono indicati come “campioni” dell’etica della convinzione, quella di chi segue rigorosamente i propri principi, senza preoccuparsi delle conseguenze che ne potranno derivare. In un mondo asservito al calcolo e alla convenienza, dominato dal dio denaro e dal carrierismo più sfrenato, suona veramente strano che qualcuno possa ancora orientare la sua condotta a parametri diversi ed avere una visione del mondo e della vita in cui sono i valori l’unica bussola. Eppure, a chi volesse dubitarne, ci sono le storie delle tante vittime della propria personale coerenza e della ferocia altrui. Vittime accomunate tutte dall’amore per la verità e da un’esemplare fede nei confronti di quel senso di umana solidarietà e giustizia che la nostra società sta smarrendo.
Avvocati, professionisti, forze dell’ordine, magistrati: non c’è categoria che non abbia avuto i propri caduti. Eppure, nonostante questa evidenza, molti di questi uomini e donne sono stati, molto spesso, considerati alla stregua di “carrieristi”, motivati dal desiderio di realizzare le loro umane aspirazioni piuttosto che non un ideale di giustizia. Nulla di più falso, ma di questo sentimento e di questa inclinazione sono rimaste molte testimonianze, di cui la più nota, forse, è lo sciagurato articolo, «I professionisti dell'antimafia», con cui Leonardo Sciascia, ridusse ad ambizione ed opportunismo quello che era impegno morale e civile, scrivendo, a commento della nomina di Paolo Borsellino a Procuratore di Marsala, che “nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Che il carrierismo di cui parlava Sciascia esista e sia coltivato anche in magistratura era ed è indubbio. Ma sviluppando il ragionamento del grande scrittore di Racalmuto ne viene fuori che la mafia esiste ed opera, soprattutto, per realizzare le ansie di protagonismo dei magistrati.
Di questo fraintendimento, alimentato ad arte da alcuni, rimane una traccia evidente anche nel discorso con cui proprio Paolo Borsellino, il 25 giugno 1992, ricordava, a un mese dalla Strage di Capaci, l’amico Giovanni: “ Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice – scrive Borsellino - non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa…..Anch'io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell'attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch'esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall'ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo.
Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura.”
Non è una celebrazione quella che Paolo Borsellino fa dell’amico Falcone, quanto piuttosto una “difesa” a tutto campo del suo operato e della sua persona. Nonostante sia stato barbaramente ucciso, nonostante la commozione generata da quelle morti nel paese, Borsellino si sente di dover difendere Falcone, ancora e soprattutto, dalle insinuazioni che ne avevano accompagnato l’operato e che continuavano ad avvelenarne la memoria. L’11 luglio, con una cerimonia religiosa e civile, ricorderemo a San Pietro in Vincoli i tanti colleghi uccisi barbaramente dalla criminalità. Ma ad uccidere questi magistrati, riconosciamolo a distanza di tanti anni, non è stato solo l’odio della criminalità e del terrorismo, ma anche i dubbi, le esitazioni e le incomprensioni di un intero paese e, forse, l’incapacità della stessa magistratura, nel suo complesso, di essere all’altezza di questi uomini.
(*)Magistrato, Direttore della rivista “Nova Itinera. Percorsi del diritto nel XXI Secolo”
di Stefano Amore(*)